Quando guardiamo alle sole grandezze economiche ignoriamo il più di quanto accade non solo nelle scelte di consumo, ma anche in quelle che riguardano gli investimenti, l’ambiente, le relazioni, etc. insomma in tutto quanto alla fine fa girare il mondo e determina i processi di sviluppo (o anche di sottosviluppo).
Ci sono episodi però che ci fanno riflettere sulla rivincita della cultura sul mero dato economico, quello che esprime convenienze di massa. Un caso che ha riguardato in questi giorni il più grande mercato mondiale è collegato alla gaffe (purtroppo gravida di conseguenze) di una notissima griffe della moda italiana in Cina in merito a un filmato pubblicitario che è stato considerato offensivo.
Cosa è successo? Ci possono essere molte determinanti (e anche molti interessi sottostanti), ma un aspetto che emerge (anche al di là dello specifico episodio) è il non aver tenuto profondamente conto delle caratteristiche culturali di un contesto, del sistema di convinzioni radicate e di simboli che in tutti i territori modellano le scelte delle persone.
La cultura conta in economia? Sì eccome! E da tanti anni molti economisti e anche storici dell’economia hanno cercato di spiegarne le possibili determinanti e influenze sui processi di sviluppo. Al punto che in diversi casi un particolare stile culturale, convinzioni diffuse e consolidate attraverso processi di fiduciari “chiusi”, rischiano addirittura di contraddire i principali postulati di teoria economica, vanificandone i rimedi standard.
Poi se ne sono dovuti accorgere negli anni scorsi praticamente tutti gli economisti del Fondo Monetario Internazionale che, sulla base delle semplici regolette del Washington Consensus (quelle che con un poco di stretta monetaria e liberalizzazione del mercato e una moderazione salariale accompagnata da qualche piccolo-grande sacrificio) pensavano di sanare tutte le situazioni di sottosviluppo e di crisi, come direbbe il grande Antonio de Curtis (Totò) “a prescindere” delle profonde determinanti locali.
Certo la cultura conta, ma spesso gli economisti e gli operatori di policy sono impegnati a definire algoritmi matematici di relazione tra grandezze macroeconomiche sempre più astratti e lontani dalla vita vera.
Non è facile definire i diversi elementi di una matrice culturale, perché spesso traggono origine da atteggiamenti e motivazioni aventi radici nel passato e in consuetudini e modalità spiegate più da un’analisi antropologica che da una teoria basata sul confronto di convenienze autointeressate o sugli stimoli al consumo.
Ed è proprio qui il punto…è possibile che oggi i tradizionali stimoli a consumare siano sempre meno efficaci? Ci sono segmenti di mercato in cui il richiamo ai cosiddetti valori unificanti può valere ancora, ma sempre più assistiamo a una diversificazione di motivazioni a una segmentazione di preferenze che rendono le cosiddette “nicchie” di mercato sempre più piccole.
Se ne sono accorti i grandi possessori di big data che infatti offrono servizi di profilazione degli utenti sempre più profondi e… pericolosi.
Ci piace pensare che questo percorso di valorizzazione culturale di recupero di tradizioni lontane ma profondamente radicate e di contrasto alla massificazione comporti come conseguenza anche un più forte recupero dei valori umani e non solo di quelli edonistici.
Edmund Phelps, un premio Nobel dell’economia, si è interrogato su ciò che rende fiorente una economia e ha trovato questi ingredienti in un processo di innovazione non limitato alle élite, ma basato su di una cultura favorevole e dinamica, alimentata da forti valori umani.
Michael Porter e Mark Kramer già da diversi anni parlano del superamento del profitto individuale come indicatore di efficienza e sempre più della necessità di generare un valore condiviso con la possibilità di sviluppare valore economico attraverso la creazione di valore sociale.
E per produrre valore sociale bisogna partire dalla conoscenza delle specifiche caratteristiche di una società… occorre individuare gli aspetti sottostanti ai comportamenti e soprattutto evitare di confondere il portato dei tanti assordanti fenomeni social digitali che ci circondano con i reali comportamenti delle persone.
Sempre più il mondo dei social network ci conduce, e spesso ci rinchiude, in una effimera emozionalità, che attiva aspetti superficiali, crea connessioni epidermiche spesso false e comunque momentanee.
Reagire sulla base di questi indicatori significa scambiare le community virtuali per vere comunità di gente. E soprattutto significa spesso confondere le potenzialità diffusive consentite da questi strumenti con il senso vero dei valori alla base di atteggiamenti anche molto profondi che non hanno niente a che vedere con gli strumenti usati per la diffusione (la rete digitale).
L’episodio citato probabilmente può anche essere interpretato (al di là evidentemente degli aspetti di ordine politico-istituzionale di cui si è poi anche colorato) come una specie di rivincita dei “valori” sul valore unificante di un mercato globale… Forse anche in questo c’è qualcosa di positivo.
di Gaetano Fausto Esposito – Segretario Generale di Assocamerestero
Gaetano Fausto Esposito, economista si occupa di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. È autore di numerosi saggi sui temi che riguardano i regimi capitalistici, l’economia finanziaria e dello sviluppo, l’economia industriale, l’analisi economico-territoriale e dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Già direttore dell’Area Studi e ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, componente dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici e docente di Economia applicata in diversi Atenei, attualmente insegna presso l’Università telematica Universitas mercatorum ed è Segretario Generale di Assocamerestero (l’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’Estero).