L’evasione fiscale in Italia non viene considerata dallo Stato un reato particolarmente grave
Sul piano normativo l’evasione è al pari di un reato bagatellare: se rubi un portafogli con dentro 50 euro o evadi 100 milioni la procedura è la stessa.
Per far quadrare i conti dello Stato, con un debito stratosferico, tra i più alti in Europa, senza tagliare i servizi essenziali per le famiglie dalla sanità alla scuola, c’è un solo modo: ridurre l’evasione fiscale. Secondo una stima recente il Mef sostiene che in Italia ogni anno si evadono ben 107 miliardi di tasse, che diventano 191 se includiamo anche l’economia sommersa. Fatturazione e scontrini elettronici stringono le maglie ai piccoli contribuenti, ma bisogna investire sugli analisti per il controllo dei dati. La lotta all’evasione di grandi imprese e multinazionali richiede invece monitoraggi mirati, e qui l’investimento nel personale è ad altissimo rendimento. I «grandi contribuenti», quelli sopra i 100 milioni di euro di fatturato, in Italia sono solo 3.320 (quelli noti): lo 0,06% dei 6 milioni di partite Iva. Ma nell’ultimo anno hanno garantito il 35% dell’evasione recuperata dal fisco. Nonostante ciò, la Corte dei Conti nell’ultimo rendiconto generale dello Stato dice che le entrate da accertamenti sostanziali sono in flessione di 5,6 miliardi: meno 23,8% rispetto al 2017, meno 9% rispetto al 2016. I soggetti in campo per il recupero del dovuto sono Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, Procure, Dogane. Tutti con un problema comune: il personale. Ovvero la materia prima necessaria per una seria attività di contrasto.
L’Agenzia delle entrate ha 36.069 dipendenti. Dal 2000 a oggi ne ha persi circa 10 mila. Con quota 100 altri 1.146 sono pronti a uscire. In più 800 dirigenti, nel 2015, sono stati retrocessi a impiegati perché erano stati promossi internamente senza vincere un concorso. Una via «forzata» anche dal blocco delle assunzioni. Sta di fatto che il loro stipendio è sceso da 3.500 euro a 1.700, e così quelli che avevano prodotto i risultati migliori sono andati ad alimentare i grandi studi di consulenza fiscale che assistono la «concorrenza», e cioè le grandi imprese. E non lo avrebbero mai fatto se la risposta dello Stato non fosse: «ponti d’oro a chi se ne va». Risultato: tagliati i controlli, poiché i servizi allo sportello non possono essere certo sacrificati. Per far ripartire la macchina servono 4000 assunzioni e almeno 350 nuovi dirigenti.
Gli specializzati dell’Agenzia sui controlli alle banche sono, in tutto il Paese, soltanto otto. Un settore che dovrebbe essere sempre «blindato», sia di mezzi sia di personale, è quello che si occupa dei 3.200 grandi contribuenti presenti in Italia, proprio perché spesso l’evasione è di grandi dimensioni. Le Regioni che hanno un dipartimento dedicato sono nove: Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Sicilia, Puglia e Piemonte. La metà di questi «grandi contribuenti», cioè 1676, si trovano in Lombardia. Per monitorarli il dipartimento dell’Agenzia delle Entrate lombardo ha soltanto 179 persone, di cui 67 dedicati ai controlli sostanziali. In questo quadro emerge il modello Milano. Anche qui le risorse sono scarse, ma una pervicace attività di coordinamento fra Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza e Procura, dal 2015 a oggi, ha portato all’erario 5 miliardi e 633 milioni di euro grazie a patteggiamenti e accordi firmati da 115 soggetti, e il 90% erano proprio «i grandi». La lista è nota: Apple nel 2015 ha dovuto pagare al fisco 318 milioni di euro; Google 306 milioni nel 2017. Nel 2018 Amazon ha dovuto versarne 100, altrettanti Facebook e 79 il gruppo Mediolanum.
Quest’anno è toccato a Kering (gruppo Gucci), 1,2 miliardi, mentre Ubs ha «scucito» 102 milioni di euro. Anche grazie a questo risultato si è riusciti a calmare le acque di Bruxelles sui nostri conti pubblici. Se lo Stato fosse un’azienda privata, chiederebbe a queste tre galline dalle uova d’oro: «visto che a Milano sono concentrati il 32% dei grandi contribuenti, di cosa avete bisogno per marciare a pieno regime?». La risposta è dettata dallo stato dei fatti. Il settore dedicato dell’Agenzia delle entrate della Lombardia negli ultimi 3 anni ha perso il 13,5% del personale. La Guardia di Finanza Milano, considerata a giusta ragione per i risultati che riesce a conseguire un’eccellenza, dispone di sole 200 persone.
Ne servirebbero altre 100 e un investimento in strutture informatiche. Le grandi aziende hanno un business sempre più frammentato fra vari Stati, ed è molto difficile scovare dove stanno producendo profitti. Recuperare il dovuto richiede grandi competenze e un’adeguata formazione: per preparare un investigatore servono 7-8 anni di esperienza e continui aggiornamenti. Alla Procura di Milano, fino a qualche anno fa, i magistrati dedicati ai reati societari, economici, fiscali, corruzione, erano 15. Oggi sono in 10. Vista la potenzialità del territorio, la complessità delle indagini, e la necessità di non sottrarre magistrati ad altri dipartimenti, ne servirebbero altri dieci, supportati da altrettanti amministrativi e polizia giudiziaria. Se queste tre istituzioni fossero dotate del personale necessario, quanto denaro in più entrerebbe nelle casse dello Stato? E perché il modello Milano, che è osservato dagli inquirenti spagnoli e francesi, non viene replicato nel resto del Paese? .
C’è poi la questione che riguarda la collaborazione tra il Fisco e i big dell’impresa con ricavi superiori ai 10 miliardi. Oggi le società che aprono i libri contabili al Fisco prima ancora di fare la dichiarazione dei redditi, sono in tutto una ventina, quasi tutte a partecipazione pubblica o fornitori pubblici (Enel, Ferrovie, Leonardo, Atlantia). Dal primo gennaio 2020 la «cooperative compliance» sarà allargata a tutte le aziende sopra i 100 milioni di fatturato. Ma il personale che se ne occupa non c’è. Gli italiani che hanno depositato 85 miliardi su conti esteri superano il milione. Sono i numeri prodotti dallo scambio automatico di informazioni fra 103 Stati (CRS). Per verificare se questi soldi sono stati o meno dichiarati, e di conseguenza recuperare il dovuto, servono persone e mezzi performanti di cui siamo gravemente carenti. C’è, poi, il problema delle banche dati che non si parlano fra loro: quella dell’Agenzia delle Entrate non è a disposizione della Guardia di finanza.
All’Agenzia non sono disponibili le segnalazioni operazioni sospette, che invece ha la Gdf. Perciò se l’Agenzia sta facendo un accertamento su tizio, potrebbe non sapere che quella stessa persona è stata segnalata per riciclaggio. Le Dogane invece non condividono la loro (Aida) con nessuno. Infine una domanda: lo Stato considera l’evasione un reato grave? La risposta è no. Sul piano normativo l’evasione è al pari di un reato bagatellare: se rubi un portafogli con dentro 50 euro o evadi 100 milioni la procedura è la stessa. Finisci davanti ad un giudice monocratico e l’accusa è sostenuta da un viceprocuratore onorario, mentre la difesa si porta i più grandi studi professionali. Davanti al giudice monocratico finiscono i reati meno gravi, quelli considerati «gravi» finiscono davanti ad un collegio composto da tre giudici. Lo Stato quindi considera poco grave evadere 100 milioni o un miliardo, anche quando l’evasione è fraudolenta (frutto di false fatturazioni). Una partita difficile da vincere se non cambia l’approccio dello Stato con il problema dell’evasione fiscale; occorre fare di più, molto di più per ottenere risultati concreti ed apprezzabili sul piano del recupero di ingenti somme di danaro inevase; occorre favorire una più stretta collaborazione tra gli organismi statali impegnati in questa difficile e complessa missione ed inasprire le pene se necessario; va, infine, assicurato il personale specializzato necessario per le indagini e dotare gli organismi operativi degli strumenti ad altissima tecnologia da tempo, peraltro, presenti sul mercato.
Giacomo Marcario
Comitato di Redazione de “ Corrierepl.it