NEW YORK – “Tra schiavitù e sterminio dei nativi americani, gli Stati Uniti hanno costruito una storia nazionale piena di miti inventati o ipocriti, fregando pure gli innocenti paisà”. La denuncia, alla luce degli ultimi eventi che hanno visto tristemente protagonista Cristoforo Colombo, arriva da Massimo Jaus che firma un interessante editoriale per La Voce di New York.
“Sembra un po’ una commedia di Pirandello: amori e odi, ammirazione e disdegno per una stessa situazione vista con occhi (e teste) differenti tanto per ricordarci che la verità assoluta non esiste. E quest’America ammalata, arrabbiata e istigata se la prende con i simboli, con i ricordi, con il passato, ma non tutto. Diventa giustizialista e giacobina, iconoclasta e irriverente. Fa un’analisi storica superficiale, giudica eroi, imprese, condottieri, leader politici, facendo una scelta selettiva e con molta ipocrisia, conveniente. Così si ricorda improvvisamente che questo Paese è nato sulla schiavitù tralasciando però che questa, nella scala dell’infamia, è “meno peggio” del genocidio di indigeni che è stato perpetrato dai fondatori della Nazione. Un Paese che si inventa con il presidente Lincoln il “Thanksgiving” mettendo sulla stessa tavolata Native American e Pilgrims che secondo la favola il giorno del Ringraziamento festeggiavano insieme. Ben sappiamo come la realtà sia stata ben diversa.
Povero Cristoforo Colombo, navigatore rinascimentale che nessuno prendeva sul serio ad eccezione del paese dell’Inquisizione di Torquemada. Pensava di navigare ed esplorare, di arrivare in India. Sbagliò e regalò la sua impresa ad un paese che, tra espoliazioni e stragi, “civilizzò” gli indigeni.
Si distruggono le statue di Cristoforo Colombo, ma si difendono quelle di George Washington e Thomas Jefferson, latifondisti e proprietari di schiavi. Si abbattono quelle dei generali confederati ma si onorano quelle dei presidenti dell’American Indian War, guerra che ha causato stragi incalcolabili.
In Indiana, nel paesino di Vincennes, circa a 130 miglia a sud di Indianapolis, c’è la casa-museo di William Henry Harrison, nono presidente degli Stati Uniti. La sua fu una presidenza brevissima: morì di tifo un mese dopo l’inaugurazione. In una stanza della sua casa-museo, sono evidenziate le sue gesta militari di quando era governatore dell’Indiana Territory e in particolare la battaglia di Tippecanoe con il massacro dei Shawnee. E poi le statue di Andrew Jackson, un po’ sparse per gli Stati Uniti. Forse la più famosa è quella di Lafayette Square a Washington DC. Ma quanti americani si ricordano che fu il presidente del “Trail of Tears”, la Marcia delle Lacrime, in cui vennero deportati 60 mila indiani, nelle riserve. E quattro mila morirono durante il tragitto.
L’America dei pionieri aveva capito che per crescere, per attirare le masse di coloni dall’Europa, aveva bisogno di cambiare immagine, di nascondere il sangue degli espropri e mettersi l’abito di gala delle corti europee. Si vendeva la terra degli indiani a chiunque volesse coltivarla ma per fare questo aveva bisogno del vestito buono e dei salotti che contavano.
John Adams, futuro presidente degli Stati Uniti, fu il primo ambasciatore delle ex colonia alla corte di Saint James, Benjamin Franklin fu il primo ambasciatore americano a Parigi e John Jay a Madrid. Gli USA erano rimasti legati sia nelle tradizioni che nella lingua con Londra, mentre Francia e Spagna erano i due confinanti a nord e sud del Paese. Uno dei più autorevoli ambasciatori mandati in Spagna fu Washington Irving, diplomatico a tutto servizio e ottimo scrittore di fantascienza. Fu lui l’inventore di Babbo Natale nel suo “Knickerboker Santa Claus”. Suoi i racconti di fantascienza e orrore “The Legend of Sleeping Hollow”, “Rip Van Winkle”, ma anche “The History of Life and Voyages of Christopher Columbus” pubblicato nel 1828. Un saggio ideato per legare ulteriormente i rapporti tra la nuova repubblica e la Spagna. E qui il viaggio e l’impresa di Cristoforo Colombo vennero romanzati, ingigantiti, abbelliti creando un’aureola di romanticismo e di coraggio, di ottimismo e di benevolenza. Un racconto di fantastoria che ebbe enorme successo ma che era in totale contrasto con la realtà dei fatti. Il risultato però lo ottenne facendo enorme presa sulle masse, che tra carestie e persecuzioni religiose lasciavano i propri paesi di origine.
Con Colombo si celebrava la vittoria dei cattolici sui protestanti e, soprattutto per i poveri immigrati italiani, l’incarnazione dell’eroe e il riscatto agli insulti e alle privazioni del tempo. Un modo per dire agli americani che se esistevano era grazie ad un italiano che aveva scoperto il loro continente. E a Denver, in Colorado, Angelo Noce con Sirio Mangini fondarono un bar nel 1873, il “Christopher Columbus Hall”, dove ogni 12 di ottobre c’era una gran festa. E il mito di Colombo attecchì e si propagò, grazie ai Sons of Italy, ai Knights of Columbus, alle battaglie di Generoso Pope. Finalmente nel 1968, il congressman Frank Annunzio, dopo una battaglia non facile riuscì a far proclamare Columbus Day festa federale.
Siamo stati scippati di un sogno, di un’immagine, di un successo. Abbiamo creduto alla verità romanzata di Washington Irving. E ora la verità storica prepotentemente si fa presente. Chissà se sarà così per altri grandi protagonisti del romanzo America…”.