Le grandi emigrazioni degli italiani nelmondo in 140 anni

Le grandi emigrazioni degli italiani   nelmondo in 140 anni

 

Anni

Tot. Emigrati

Uomini

Donne

Rimpatriati

Saldo + o –

1861-1870

1.210.000

1.008.000

202.000

non noti

– 1.210.000

1871-1875

585.000

525.000

60.000

non noti

– 585.000

1876-1880

544.000

464.000

80.000

non noti

– 544.000

1881-1885

771.000

654.000

117.000

non noti

– 771.000

1886-1890

1.110.000

871.000

239.000

non noti

– 1.110.000

1891-1895

1.283.000

989.000

294.000

non noti

– 1.283.000

1896-1900

1.552.000

1.240.000

312.000

non noti

– 1.552.000

1901-1905

2.770.000

2.287.000

473.000

544.000

– 2.226.000

1906-1910

3.256.000

2.658.000

598.000

1.000.000

– 2.256.000

1911-1915

2.743.000

2.198.000

545.000

976.000

– 1.766.000

1916-1920

1.085.000

718.000

367.000

233.000

– 852.000

1921-1925

1.516.000

1.076.000

440.000

137.000

– 1.379.000

1926-1930

1.061.000

776.000

285.000

685.000

– 376.000

1931-1935

458.000

278.000

180.000

535.000

+ 77.000

1936-1940

421.000

314.000

107.000

535.000

+ 114.000

1941-1945

250.000

242.000

8.000

230.000

– 20.000

1946-1950

1.128.000

713.000

415.000

455.000

– 673.000

1951-1955

1.366.000

927.000

439.000

660.000

– 706.000

1956-1960

1.739.000

1.275.000

464.000

917.000

– 822.000

1961-1965

1.556.000

1.221.000

335.000

1.043.000

– 513.000

1965-1970

1.078.000

747.000

329.000

820.000

– 258.000

1971-1975

637.000

439.000

198.000

600.000

– 37.000

1976-1980

502.000

346.000

155.000

490.000

– 12.000

1981-1985

415.000

287.000

128.000

415.000

00 (fine di un’epoca)

TOTALI

29.036.000

22.253.000

6.780.000.

10.275.000

18.761.000

Considerazioni
1)
 di 7

Alle perdite di popolazione effettiva sul territorio, si devono aggiungere i danni derivanti dal dislivello creato nella popolazione rimasta, cioè quello tra maschi e femmine. Inizialmente fino al 1925 la popolazione emigrante era composta dall’85% di maschi e il 15% di femmine, e solo negli ultimi decenni si ridusse a un 65% di uomini contro un 35% di donne.

2) di 7

L’età  dell’emigrante risulta quasi sempre essere stata una età media dai 16 ai 45 anni;  la differenza tra uomini e donne partiti (negli anni fino al 1950) è la stessa all’incirca (nel 90% dei casi) con l’uomo nella condizione di celibe. Dopo il 1950 questa percentuale di non sposati cala al 78%; significa che il 22 % si recava a lavorare all’estero, soprattutto nei Paesi Nord-Europei, pur avendo famiglia in Italia.

3) di 7

Comunque tali cifre hanno proporzionato schiere di nubili, e tali mancati matrimoni hanno provocato corrispondenti contingenti di mancate nascite sul territorio nazionale, contribuendo in grande misura a far diventare (come media) vecchia la popolazione residente. 
Non solo la popolazione è invecchiata, ma sono venute a mancare anche le generazioni di giovani che sono emigrate a milioni.

Lo stesso fenomeno si verificherà a livello interno, regionale, quando le migrazioni del Sud verso Nord, causò un repentino invecchiamento della popolazione meridionale; ma che però dal 1985 in avanti ha imboccato la tendenza inversa. Scomparsi nel sud i vecchi nati negli anni 1910-1930, vengono ora a mancare (ed è una fortuna per il Sud) proprio i 5 milioni trasferitisi nel Nord e che sarebbero appunto diventati vecchi -ora in questi anni- nel loro paese di origine. Paradossalmente l’aiuto ricevuto dal nord facendo immigrare negli anni ’50 e ’60 nelle aree industriali le giovani popolazioni meridionali, ora si presenta come un danno, come delle cambiali presentate all’incasso, sotto forma di invecchiamento nella popolazione settentrionale. 
E una volta scomparsa questa, verrà a trovarsi senza avvicendamento delle giovani leve, che in aggiunta a un diverso stile di vita di queste (vedi divorzi, bassa natalità, quindi alto calo demografico) porterà fra 11 anni, nel 2007 al sorpasso della popolazione del Sud nei confronti di quella del Nord. E cambierà la tipologia dei consumi fra le due entità territoriali. Una in piena vigoria (consumatori giovani), l’altra svigorita (consumatori demotivati oltre ad avere a disposizione scarsi mezzi economici).

4) di 7

Un altro aspetto sconosciuto alla maggior parte degli italiani di oggi è l’appartenenza regionale degli emigranti, pregiudizialmente considerati quasi tutti nativi del Sud. Invece scopriamo che fino agli anni 1880, l’80% degli emigranti era del Nord, il 7% del Centro e solo il 13 % del Sud. 
Dal 1880 e fino al 1925 dei 16.630.000 partiti per l’estero, il 50 % era del Nord con 8.308.000(di cui 3.632.000 Veneti), 1.1819.000 (11%) del Centro e 6.503.000 (39%) provenivano dal Sud.

5) di 7

Da non dimenticare inoltre che circa il 90 % degli emigranti del primo periodo era analfabeta e al loro arrivo alle frontiere venivano subito individuati avendo con se il famigerato e umiliante “Passaporto Rosso” che li inquadrava nella categoria di manovalanza per i lavori umili. Nel secondo periodo, in quello del 1950-’70, l’alfabetizzazione già era migliore ma comunque rimaneva sempre a livelli oscillanti fra il 60 e il 75 %, sopratutto negli emigranti del Sud e del Veneto, sempre stato quest’ultimo un grande serbatoio di manodopera per il nord Europa fino alla fine degli anni ’70.

6) di 7

Riguardo proprio al Veneto c’è una punta dolente dell’emigrazione della sua gente nei primi anni ’50, verso le miniere del Belgio. E’ la disumana e umiliante legge varata il 19 ottobre 1945. Questa era un’intesa del governo italiano con quello belga  che si impegnava a dare all’Italia, 24 quintali di carbone all’anno per ogni italiano che si recava a lavorare nelle sue miniere, dove nessun belga  voleva più scendere. Il governo con il successivo accordo del 23 giugno del 1946 lo ampliò e sottoscrisse l’impegno per favorire l’invio in Belgio di 50.000 italiani. Il contingente necessario per questo scambio uomini-carbone, fu quasi interamente messo insieme nella popolazione Veneta (in territorio vicentino 23.000).   Scesero nelle miniere di Marcinelle a Charleroi affinchè potessimo avere carbone per le nostre acciaierie che andranno a far nascere da lì a poco “il boom”(!) italiano. E potremmo dire che ogni auto o ogni elettrodomestico bianco prodotto negli anni del “miracolo” (!?) , aveva appiccicato un pezzo di carbone bagnato dal nero sudore di un veneto e in certe circostanze drammatiche (Marcinelle 8 Agosto 1956- 262 minatori italiani soffocati nella miniera) anche bagnati di sangue. A futura memoria! Per non dimenticare!

7) di 7

Non sfuggiranno certamente i dati del periodo del ventennio di Mussolini. Vi ritroviamo per la prima volta un saldo non solo a pari, ma anni dove il saldo è in positivo. Significa che l’economia italiana di quel periodo non solo riduceva e tamponava l’emorragia delle forze lavoro giovani verso l’estero, ma fece in modo,  in pochissimi anni di far rientrare quelli che prima erano emigrati in cerca di un lavoro. Non solo, ma si emanò, per non accentrare ma decentrare, anche una legge sull’emigrazione interna (chi non aveva una casa e un lavoro non poteva fare il vagabondo o il disoccupato in un’altra città della nostra penisola). Legge fu abolita il 10 febbraio 1961 e che scatenò l’emigrazione selvaggia in quelle città che non avevano le strutture idonee a riceverla.  E neppure le hanno ora -anni 2000- per far fronte a quegli stessi soggetti che ora sono in età pensione e necessitano di servizi sociali mirati e adeguati alla loro età e alle scarse risorse economiche di cui dispongono. Cioè le pensioni: l’inflazione registra  tassi molto bassi (prendendo solo alcune voci quasi insignificanti – il costo della vita) ma non tiene conto delle varie voci che sono aumentate in alcuni casi anche del 50% (assicurazioni, luce, gasolio per riscaldamento, tasse comunali, Ici, tasse rifiuti,  ticket sanità, ecc ) e che non sono voluttuarie ma rientrano nelle spese correnti comuni (necessari oggi) ad ogni singolo cittadino.


(Chi la volle cancellare quella legge si può solo immaginare – le pretese dei locali nel triangolo industriale erano diventate alte, l’industria stava esplodendo. Gli emigranti oltre che accontentarsi  (calmierando così il costo del lavoro) di paghe basse (spesso anche senza libretti di lavoro) venivano impiegati in lavori umili o nelle campagne (nelle risaie vercellesi nel 1955-1960 i locali erano solo l’1 per cento). Come riportiamo in altre pagine dei singoli anni; nel Nord, i locali (nei tre comparti -industria, agricoltura, servizi) potevano disporre di 160 posti di lavoro ogni 100 disponibili in età lavoro). 

CRONOLOGIA SULL’EMIGRAZIONE

1871 Primo censimento degli italiani all’estero. Leone Carpi pubblica il Saggio sull’emigrazione italiana. 
1875 Fondazione della Società per il Patronato degli Emigranti Italiani. 
1876 Pubblicazione della prima statistica dell’emigrazione ad opera della Direzione Generale di Statistica.
Il ministri Finali propone una legge, non approvata, di disciplina e tutela dell’emigrazione. 
1877 Firma del Trattato commerciale con la Francia. 
1878 Presentazione di due progetti di legge DelGiudice, Minghetti, Luzzati per frenare l’emigrazione. 
1882 Progetto di legge di Pubblica Sicurezza sull’emigrazione. 
1885 Gli Stati Uniti varano una legge che proibisce l’ingresso di immigrati con contratti di lavoro già siglati. 
1887 Introduzione in Italia della nuova tariffa doganale protezionistica. Scalabrini fonda la Congregazione Missionaria per gli emigrati. 
1888 Decreto presidenziale francese relativo all’obbligo della dichiarazione di residenza in Francia per tutti gli stranieri. La Camera approva la legge Crispi sull’emigrazione (legge n. 5877 del 30 dicembre). 
1898 Una legge francese permette agli stranieri di partecipare alle Società di Mutuo Soccorso. 
1900 Il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli, istitutisce l’Opera di assistenza degli operai emigrati in Europa e nel Levante. 
1901 Legge Luzzati sull’emigrazione (n. 23 del 31 gennaio) e istituzione del Commissariato Generale dell’emigrazione. 
1902 Pubblicazione del Bollettino dell’emigrazione. 
1904 Istituzione del Consorzio dell’emigrazione temporanea in Europa. 
1907 Accordo di Stoccarda: i lavoratori edili italiani possono iscriversi alle organizzazioni sindacali tedesche. 
1908 Primo Congresso degli italiani all’estero. 
1910 Legge n. 538 per la riorganizzazione del Commissariato generale dell’emigrazione. 
1911 Secondo Congresso degli italiani all’estero.
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L’emigrazione italiana dal 1861 al 1913

Il censimento generale del 1861 accertò l’esistenza di colonie italiane, già abbastanza numerose, sia nei paesi di Europa e del bacino mediterraneo sia nelle due Americhe:

Francia, 77.000 
Germania, 14.000 
Svizzera, 14.000 
Alessandria d’Egitto, 12.000 
Tunisi, 6.000 
Stati Uniti, 500.000 
Resto delle Americhe, 500.000 

Intorno al 1870 il movimento assunse la consistenza di un vero fenomeno di massa, raggiungendo una media annua di 123.000 nel periodo 1869-75. Cifre più sicure e fra loro comparabili si hanno a partire dal 1876, anno in cui, sotto la guida di L. Bodio, s’iniziò a rilevare con regolarità l’immigrazione italiana. 

Nei primi anni, ancora disorganizzata e sporadica, l’emigrazione si mantenne intorno ad una media di 135.000 emigrati, diretti in prevalenza verso paesi europei e mediterranei; dal 1887, per l’aumentata offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppa rapidamente l’emigrazione transoceanica e la media annua complessiva raddoppia, passando a 269.000 unità (periodo 1887-900). La Francia, seguita a una certa distanza dall’Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tiene sempre il primo posto tra i paesi di destinazione dell’emigrazione continentale in questo primo venticinquennio; l’Argentina e il Brasile, che assorbono la maggior parte dell’emigrazione transoceanica nei primi venti anni, si vedono invece rapidamente sorpassare dagli Stati Uniti verso la fine del secolo.

L’incremento dell’emigrazione transoceanica, in valori assoluti e nei confronti di quella continentale (da 18,25% dell’emigrazione complessiva nel 1876 a 47,20% nel 1900), e lo spostamento della sua direzione dall’America meridionale alla settentrionale, si devono mettere in relazione sia con le mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani che con la diversa partecipazione delle varie regioni d’Italia all’espatrio.

Nei primi anni del Regno emigrarono soprattutto abitanti delle regioni settentrionali, socialmente più progredite e con popolazione più numerosa; nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo irrilevante, a causa del loro isolamento, della scarsa viabilità e dell’ignoranza, residui dei passati regimi, ma anche del tradizionale attaccamento alla terra e alla casa e di minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale. In pochi decenni il rapporto si invertì sia a causa dell’intenso ritmo di accrescimento demografico sia per le poco floride condizioni economiche (in parte dovute alla tariffa protezionistica dell’87, che sacrificò l’agricoltura all’industria) che non permettevano di assorbire l’eccesso di manodopera. 

Negli ultimi anni del secolo XIX, la quota fornita all’emigrazione complessiva dall’Italia settentrionale diminuì (da 86,7% nel 1876 a 49,9% nel 1900) mentre crescevano quella dell’Italia meridionale e insulare (da 6,6% a 40,1%) e dell’Italia centrale (da 6,7 a 10%). 
In questo primo periodo il fenomeno fu lasciato a se stesso; la sola legge varata dasl Parlamento fu la n. 5877 del 30 dicembre 1888, che peraltro si limitava a sancire quasi esclusivamente norme di polizia in vista dei molteplici abusi degl’incettatori di manodopera. La situazione migliorò e i soprusi degli speculatori cessarono solamente quando fu approvata una legge organica dell’emigrazione e fu creato un organo tecnico specifico per l’applicazione della legge stessa: 
furono abolite le agenzie e subagenzie, il trasporto fu consentito solo sotto l’osservanza di determinate cautele e garanzie, 
si crearono organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio, si stabilirono norme per l’assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica nell’emigrazione e la disciplina degli arruolamenti per l’estero. 

Assistita, organizzata e diretta laddove maggiori fossero le possibilità di occupazione, l’emigrazione italiana, per quanto con andamento irregolare dovuto alle crisi attraversate dai paesi di destinazione, tende ad aumentare, nei primi anni del secolo XX; la media annua nel 1901-13 sale a 626.000 emigranti e il rapporto con la popolazione del regno, nel 1913 tocca i 2.500 emigranti per ogni 100.000 abitanti, pari a un quarantesimo circa dell’intera popolazione. E’ soprattutto l’emigrazione dall’Italia meridionale e insulare che si sviluppa, giungendo a sorpassare quella dell’Italia settentrionale: 46% contro 41% dell’Italia settentrionale e 13% della centrale, su un totale di più di 8 milioni del periodo 1901-13. 
Ciò spiega anche l’assoluto prevalere, nel periodo, dell’emigrazione transoceanica sulla continentale (il 58,2% contro il 41,8%). Gli emigrati dall’Italia meridionale, prevalentemente addetti all’agricoltura e braccianti, costretti all’espatrio dalla povertà dei loro paesi erano disposti ad accettare qualsiasi lavoro e anche a stabilirsi definitivamente all’estero, nelle terre d’oltremare; al contrario, l’emigrazione dall’Italia settentrionale, più altamente qualificata e, in genere temporanea, era per lo più assorbita da paesi europei.

Tra i paesi di destinazione dell’emigrazione continentale, la Svizzera passò al primo posto superando la Germania, l’Austria e la stessa Francia; nell’emigrazione verso paesi d’oltremare si accentuò invece il primato degli Stati Uniti, dove si diressero, dal 1901 al 1913, oltre 3 milioni di italiani, contro i 951.000 dell’Argentina e i 393.000 del Brasile. Gli alti salari offerti al mercato nordamericano, la diminuzione delle terre libere nei paesi dell’America Meridionale, la maggiore facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande industria degli Stati Uniti, concorsero a dirottare il flusso dell’emigrazione dall’Italia.

Il venire meno del vincolo fondiario, che lega l’emigrato al paese d’arrivo, e il diminuito costo dei trasporti favorirono una minore durata dell’espatrio: molti lavoratori decisero di investire i loro risparmi in Italia, prevalentemente in acquisto di terre o nella casa di proprietà .

Questo carattere temporaneo, che già era dominante nell’emigrazione continentale e che cominciava ad estendersi a parte dell’emigrazione transoceanica, si ripercuote beneficamente sull’economia italiana, sia perché gli emigrati tornano, in genere con accresciute capacità di lavoro e di iniziativa e muniti di capitali accumulati all’estero, sia perché, contando di rientrare in patria, molti emigranti vi lasciavano le loro famiglie e ad esse provvedevano durante l’espatrio con l’invio di rimesse, quelle rimesse che contribuirono attivamente al saldo della bilancia dei pagamenti dell’Italia con l’estero. 
L’emigrazione italiana negli ultimi anni dell’anteguerra era ben diversa da quella dell’ultimo venticinquennio del secolo XIX. Non si trattava più di masse prive di appoggio, emigranti alla ventura in cerca di lavoro, ma di masse guidate e assistite, e capaci alla loro volta di contribuire al miglioramento delle condizioni economiche e sociali della patria. L’emigrazione, ritenuta inscindibilmente connessa alla struttura economica del paese e al ritmo di accrescimento della sua popolazione, fu largamente incoraggiata e protetta.

La politica e l’emigrazione

Se per i poveri emigrare era una necessità, i ceti dirigenti considerarono il fenomeno migratorio un’autentica calamità. I proprietari terrieri, in particolare, vi vedevano sia il rischio di una diminuzione di manodopera e di una rottura dei patti colonici, sia il pericolo di un crollo demografico che avrebbe conseguentemente aumentato i salari agricoli. In generale si può affermare che a una più netta opposizione della proprietà terriera meridionale fece da contrappeso una più favorevole posizione dei settentrionali, soprattutto del mondo imprenditoriale più attento ai benefici derivanti dalla libera circolazione della popolazione. In effetti furono favorevoli all’emigrazione non solo gli armatori, per evidenti e diretti interessi economici, ma anche gli industriali manifatturieri e gli impresari in genere. In alcune circostanze, per esempio durante e dopo l’esplosione delle lotte bracciantili seguita alla crisi agraria, gli stessi agrari, pur avversando l’emigrazione in quanto responsabile dell’aumento dei salari, videro con favore uno sfoltimento della forza lavoro; l’emigrazione in quei casi diventava una insostituibile valvola di sfogo economico e un mezzo per il controllo sociale.

La stessa diversità di valutazione si ritrova nelle posizioni ufficiali delle forze politiche del tempo: opinioni favorevoli e sfavorevoli si fronteggiarono fino alla fine del secolo tanto all’interno della destra storica, naturale portavoce degli interessi della proprietà fondiaria, quanto fra le file della sinistra. Per esempio, i socialisti espressero spesso un giudizio severo poiché vedevano nell’emigrazione un mezzo attraverso il quale i contadini inseguivano quel sogno della proprietà privata e individuale della terra che essi invece avversavano. Inoltre consideravano l’espatrio una conseguenza dell’incapacità di dar vita a un’organizzazione di classe e di modificare così la realtà sociale e politica da cui gli emigrati fuggivano. Anche i gruppi cattolici temevano l’emigrazione per ragioni etiche e di controllo sociale: l’additavano sia come occasione di alcolismo, di dissolutezza, di adulterio e quindi di dissoluzione dell’istituzione familiare, sia come veicolo attraverso il quale l’emigrante poteva entrare in contatto con le idee socialiste e anarchiche.

Fino al varo della prima legge sull’emigrazione, che avvenne nel 1888, prevalse un atteggiamento di diffidenza, puntualmente rispecchiato dall’ordinamento legislativo e dai provvedimenti amministrativi. Varie circolari, emanate nel corso degli anni settanta, documentano un atteggiamento ostile basato su considerazioni economiche (aumento dei salari) ed etico-morali (dissoluzione della famiglia e dei valori cristiani). L’emigrante era addirittura considerato un soggetto “pericoloso” e il controllo dei suoi movimenti rientrava in una normativa poliziesca di controllo dell’ordine pubblico.

A partire dal 1888, la grande emigrazione trovò un riconoscimento ufficiale in una legislazione che allineò l’Italia alle politiche mogratorie del resto d’Europa. La legge riconobbe per la prima volta la libertà di emigrare (e riconosceva agli agenti e ai subagenti il diritto di reclutare gli emigranti) ma non prevedeva un intervento diretto delle forze governative per tutelare gli emigranti stessi, con provvedimenti e istituzioni di assistenza.

Negli anni successivi finì per prevalere il fronte unitario di quanti videro nell’emigrazione una valvola di sfogo nei momenti di conflittualità sociale e uno strumento di miglioramento economico attraverso le rimesse. Con la legge del 1901 il Parlamento approvò un intervento organico destinato a riflettersi su tutta la legislazione successiva. In primo luogo la legge tutelò i momenti iniziali della partenza e del viaggio, vietando l’attività degli agenti, sostituiti dai ‘vettori’, ossia gli armatori o i noleggiatori. Al fine di meglio coordinare le attività di difesa e di tutela dell’emigrante, il fenomeno migratorio fu classificato nelle due categorie di emigrazione continentale e tansoceanica. Venne costituito un Commissariato dell’emigrazione, organismo tecnico dipendente dal Ministero degli Esteri ma dotato di autonomia finanziaria e del potere di varare una propria legislazione e normativa. Il Commissariato curò, attraverso l’attività dei Consoli, inchieste e rilevazioni sulle comunità degli italiani all’estero, che si affiancarono a quelle effettuate dalla Direzione Generale della Statistica. I risultati di quelle indagini comparvero regolarmente nel Bollettino dell’emigrazione, l’organo a stampa del Commissariato.

I risultati furono inferiori alle attese. L’organizzazione consolare, affidata ad una rappresentanza diplomatica di estrazione sociale prevalentemente aristocratica, si dimostrò incapace di comprendere le condizioni e i problemi degli emigranti. A questa carenza si sommava l’assoluta mancanza di interventi di tutela nei paesi di arrivo: la legge non era riuscita a realizzare infatti nessuna forma di negoziazione e nessun accordo che agevolasse l’inserimento della manodopera immigrata nei mercati del lavoro esteri.

La legge dette comunque spazio ad altri interventi assistenziali e di tutela che furono delegati ad associazioni private, sia laiche sia religiose. Del resto, la Chiesa si era mossa già a partire dagli anni settanta: la Società di San Raffaele, promossa da monsignor Scalabrini, vescovo di Piacenza, si era posta come primo obiettivo quello di seguire gli emigranti transoceanici per evitarne la “scristianizzazione”. Gli “scalabriniani” si occupavano dell’emigrante difendendolo dalla rapacità delle compagnie di navigazione e degli intermediari al momento dell’imbarco, e aiutandolo ad integrarsi nelle città e nelle campagne del paese di arrivo, nonché nella ricerca dell’occupazione. Un’altra istituzione cattolica, l’Opera per gli emigranti nell’Europa e nel Levante, fondata da monsignor Bonomelli nel 1900, rivolse la sua attenzione all’emigrazione continentale e temporanea. Nell’Opera Bonomelli così come nella Società Scalabriniana è evidente un analogo intento di mantenere la fedeltà alla chiesa combattendo la laicizzazione.

Anche le forze laiche e socialiste costituirono le loro Società assistenziali, la più importante delle quali fu certamente la Società Umanitaria di Milano che predispose una rete periferica di segretariati dislocati strategicamente nelle aree di più intensa emigrazione temporanea. Applicando i propri programmi pedagogico-educativi di solidarietà, l’Umanitaria cercava di favorire l’integrazione dell’emigrante.

La scelta di intervenire soprattutto in favore dell’emigrazione temporanea dipendeva dalla considerazione che quella fosse, grazie alla sua composizione prevalentemente operaia, più permeabile agli ideali del socialismo, ma ancora di più dall’assunzione di funzioni di delega del Commissariato il quale si occupò invece quasi esclusivamente dell’esodo transoceanico.

Antonio Peragine

 

Redazione

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