La politica fra verità e post-veritá
Di Apostolos Apostolou
Il rapporto tra verità e post- verità è centrale nel pensiero di post- democrazia. Fin dal V secolo aC i filosofi dell’antica Grecia hanno evidenziato l’esistenza di un rapporto molto stretto tra esercizio del potere, menzogna e verità o, meglio, parresia definibile come attività verbale in cui il parlante sceglie di dire cose chiare e franche. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 2005. Tutti conosciamo che l’uso politico della post – verità , finalizzato esclusivamente al mantenimento del potere, viene perorato da Machiavelli. Che cosa dice Machiavelli: “Colui che governa deve esercitare una “virtù” che non è platonica conoscenza della verità, né cristiana identificazione con i precetti evangelici, quanto piuttosto aristotelica “abilità” di simulare e dissimulare, di unire l’astuzia alla forza, senza apparire spergiuro e mentitore.” ( Il Principe, xviii). Ecco una prima spiegazione della post- verità. La post – verità (post – truth) non è la propaganda, cioè l’attività di disseminazione di idee e informazioni con lo scopo di indurre a specifici atteggiamenti e azioni, (il primo fondatore della propaganda era Gregorio XVI “de propaganda fide”) ma la menzogna ideale, cioè la post – verità dei signori, e il nuovo modo di fare politica con i mass media. Il neologismo post-verità, derivante dall’inglese post – truth, indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Cosi il criterio della post-verità, secondo il termine che l’Oxford Dictionary è quando : “Essa fa riferimento o denota circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno dirimenti per la formazione dell’opinione pubblica di quanto non lo siano l’emozione e l’opinione personale.” Il professore della sociologia e filosofo politico Colin Crouch, nel suo libro Post-democrazia , usò tale termine per delineare un modello di politica, dove «le elezioni di fatto esistono e possono cambiare i governi», ma dove «il dibattito elettorale pubblico è uno spettacolo strettamente controllato, gestito da squadre rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione, che scelgono solo una piccola gamma di temi, da affrontare durante i dibattiti». Oggi si parla di post-verità in riferimento a una notizia completamente falsa cioè fake – news o ” bufala ” ma che, spacciata per autentica, sarebbe in grado di influenzare una parte dell’opinione pubblica, divenendo di fatto un argomento reale, dotato di un apparente senso logico. In una società mediatizzata , caratterizzata da flussi ininterrotti di informazioni, che si accavallano e che spesso si contraddicono, la possibilità di crearsi una chiara visione dei fatti, servendosi solo di argomenti razionali, è in diminuzione.
Nel mondo greco dirà Heidegger, la parola Aletheia, che traduciamo con il termine verità, vuol dire non-ascosità; di qui la verità come svelamento (Unverborgenheit); ciò implica che all’origine del pensiero greco emergeva ancora una intrinseca connessione tra ascosità e non-ascosità o, in altri termini, tra verità e una non-verità più originaria. La verità secondo Aristotele si definisce come conformità d’una proposizione con la realtà. Per i Greci, dunque, la verità è il manifestarsi dell’essere che si sottrae al nascondimento, e che quindi si fa presente. “Verità significa – secondo Heidegger – inizialmente ciò che è strappato ad un velatezza”. E Friedrich Nietzsche sostieneva che la verità non esiste ed è solo uno strumento del potere come distingere il vero dal falso. E da qui M. Foucault della prima fase della sua filosofia sostiene che la verità non esiste, ma nella seconda fase del suo pensiero vede la verità come i greci filosofi, cioè una connessione tra parresia e vita politica. Parresia significa la “libertà di dire tutto” e insieme la franchezza nell’esprimersi, dire ciò che si ritiene vero e, in certi casi, un’incontrollata e smodata propensione a parlare.
Cosi M. Foucault scrive: «Dobbiamo distinguere tra due tipi di parresia. In primo luogo, vi è un senso dispregiativo della parola, non molto distante da «chiacchiera», e che equivale a dire tutto ciò che si ha in mente senza specificazioni. Questo senso dispregiativo si trova in Platone [Repubblica, 577b; Fedro 240e; Leggi 649b, 671b], per esempio, come una caratterizzazione della cattiva costituzione democratica, in cui ciascuno ha il diritto di rivolgersi ai propri concittadini e di dir loro qualunque cosa, anche la più stupida o la più pericolosa per la città. Il significato dispregiativo si trova anche e più di frequente nella letteratura cristiana, in cui una certa «cattiva» parresia è opposta al silenzio, come disciplina o come condizione indispensabile per la contemplazione di Dio. Come attività verbale che riflette tutti i momenti del cuore e della mente, la parresia in questo senso negativo è ovviamente un ostacolo alla contemplazione di Dio. Tuttavia, nei testi classici, il più delle volte, la parresia non ha questo significato dispregiativo, ma ne ha piuttosto uno positivo: parresiazestai significa «dire la verità». Ma il parresiastes dice ciò che egli pensa sia la verità, o dice quello; che è realmente vero? Secondo me il parresiastes dice ciò che è vero perché egli sa che è vero; ed egli sa che è vero perché è realmente vero. Non è solo che il parresiastes è sincero nel dire qual è la sua opinione; è che la sua opinione è anche la verità. Egli dice ciò che sa essere vero. La seconda caratteristica della parresia, è dunque che c’è tempre in essa una esatta coincidenza tra opinione e verità.
Sarebbe interessante comparare la parresia greca con la concezione moderna – cartesiana – dell’evidenza. Poiché da Cartesio in poi la coincidenza tra opinione e verità è ottenuta entro una certa esperienza mentale evidenziale. Per i greci, invece, la coincidenza tra opinione e verità non ha luogo in una esperienza mentale, ma in una attività verbale, segnatamente nella parresia. Sembra dunque che la parresia, in questo senso greco, non possa più ricorrere entro la nostra moderna cornice epistemologica.
Vorrei osservare che non ho mai trovato alcun testo nella cultura greca antica in cui il parresiastes sembri avere il minimo dubbio sul fatto di possedere la verità. E in effetti, è questa la differenza tra il dubbio cartesiano e l’atteggiamento parresiastico. Poiché prima che Cartesio raggiunga una evidenza indubitabilmente chiara e distinta, egli non è affatto certo che quello che crede sia effettivamente vero. Invece, nella concezione greca della parresia non sembra esservi un problema circa l’acquisizione della verità, giacché il fatto di avere la verità è garantito dal possesso di certe qualità morali: quando qualcuno ha certe qualità morali, allora quella è la prova che egli ha l’accesso alla verità, e viceversa. Il «gioco parresiastico» presuppone che il parresiastes sia qualcuno che possiede le qualità morali che sono richieste; per prima cosa, conoscere la verità, e, secondo, comunicare tale verità agli altri. Se c’è una specie di «prova» della sincerità del parresiastes, essa sta nel suo coraggio. Il fatto che un parlante dica qualcosa di pericoloso – qualcosa di differente da ciò che la maggioranza crede – è una forte indicazione del fatto che egli sia un parresiastes.
Quando poniamo la questione di come possiamo sapere se colui che parla dice la verità, poniamo in realtà due questioni. Primo, come possiamo sapere se quel particolare individuo è uno che dice la verità; e secondo, come l’asserito parresiastes possa essere certo del fatto che ciò che egli crede sia effettivamente vero. La prima questione – riconoscere qualcuno come parresiastes – era molto importante nella società greco-romana, e, come vedremo, fu esplicitamente solevata e discussa da Plutarco, Galeno e altri. La seconda questione, invece, è specificamente moderna, estranea, credo, al mondo greco
Colui che usa la parresia è riconosciuto per tale, e merita considerazione come parresiastes, solo se il fatto di dire la verità comporta per lui un rischio o un pericolo. Per esempio, dal punto di vista greco antico, un insegnante di grammatica può dire la verità al ragazzo a cui insegna, e in effetti può non esservi il minimo dubbio sul fatto che ciò che egli insegna sia la verità. Ma nonostante questa coincidenza tra opinione e verità, egli non è un parresiastes. Invece, quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi a Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non sempre è il rischio della vita. Quando per esempio qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte.
È proprio perché il parresiastes deve correre un rischio nel dire la verità che il re o il tiranno in genere non possono usare la parresia; essi non rischiano nulla. Quando si accetta il gioco parresiastico, in cui si mette a repentaglio la propria vita, si sta tenendo una specifica relazione con se stessi ; si rischia la vita per dire la verità invece di riposare sulla sicurezza di una vita in cui la verità resta inespressa. Naturalmente, la minaccia di morte viene dall’altro, e dunque comporta una relazione con l’altro. Ma prima di tutto il parresiastes sceglie una specifica relazione con se stesso; egli preferisce essere uno che dice la verità, piuttosto che un essere umano falso con se stesso.» [1]
Nell’opera di B. Russel con titolo “Significato e verità 1940” leggiamo che il dominio della verità è assai più esteso di quello della conoscenza, ossia che la nozione di verità non è riducibile a quella di verifica. Diversamente una proposizione non sarebbe né vera né falsa, nel caso che non fosse verificata o falsificata. Invece James e Schiller hanno ridoto la questione della verità d’una credenza a quella della sua utilità vitale, psicologica per il singolo individuo proprio a proposito delle credenze metafisiche e teologiche, che contemporaneamente venivano per riconosciute come inverificabili. Il fenomeno della postverità (post – truth) e la situazione che descrive Friedrich Nietzsche. S’è immaginario il mondo ideale tramite una menzogna, s’è tolto alla realtà il suo valore, il suo significato, la sua veracità. Cosi la menzogna dell’ideale è stata finora la maledizione sospesa sulla realtà. È vero che l’uomo diventa una bugia perché la menzogna diventa realtà e passa alla storia, cosi l’uomo in un modo retto dalla menzogna non gli è possibile agire altrimenti, è menzogna egli stesso, vincolato dalla propria menzogna. Qui si trova la posterità come senso comune, cosi l’uomo è il decreto promulgato, è una codificazione volgarizzata della postverità. È come diceva Rozanov la rappresentazione è finita. Il pubblico si alza. È tempo d’infilarsi il cappotto e tornare a casa. Ci si volta più cappotto nè casa. La verità è morta, la postverità è il nostro esorcismo.
Note:
- Michel Foucault : L’ archéologie du savoir. Ed. telegalimard. Paris. 2008.
Apostolos Apostolou
Docente di Filosofia.