Il secentismo: la rottura coi canoni del passato e la funzione dell’intellettuale
di Rossella Cerniglia
Il processo seguito dalla nostra letteratura lungo tutto l’arco che dal Rinascimento giunge fino alle soglie del Barocco, evolve, nelle grandi linee, verso una progressiva consunzione e assottigliamento dei temi e verso un’altrettanto progressiva e isterilita cristallizzazione dell’elemento formale.
Tale processo consegue a una serie di cause di vasta portata storica che decretano il lento appiattimento della vita economico-sociale italiana, quali ad esempio la rottura col Levante turco e l’apertura delle nuove vie atlantiche, che privando di incisività e mordente l’interesse economico, determinano il depauperamento progressivo di ampie fasce sociali e il livellamento di quella che potremmo definire piccola e media borghesia verso una condizione di indiscriminata miseria.
La vita sociale e culturale della Penisola perde di conseguenza il vigore iniziale, quello dei tempi prosperi dell’età comunale, per restringersi intorno a pochi centri – le corti principesche – entro le quali l’intellettuale viene a trovarsi in una posizione sì di privilegio –sostenuta com’è dal mecenatismo dei principi – ma di isolamento, pure, dalla vita reale e di relegamento in un ambito alquanto ristretto.
Un esagerato regolismo, sviluppatosi via via per una crescente esigenza di rigore formale, era andato affermandosi lungo tutto il Cinquecento. Esso andava di pari passo con l’affievolirsi di temi e dei valori un tempo vivamente avvertiti nell’animo del poeta. Anche la valutazione dell’opera d’arte in esclusivo ossequio ai canoni della poetica aristotelica – divenuta, nel tempo, indiscutibile principio d’autorità nelle dissertazioni e nei dibattiti culturali dell’epoca – e le discussioni accademiche intorno alle funzioni e al valore della Lingua – inaugurate dal Bembo e variamente dibattute dal Machiavelli, dal Trissino, dal Castiglione e da vari altri intellettuali di allora – portarono all’accentuazione del formalismo e dell’accademismo e ad una sorta di consacrazione di schemi e convenzioni entro le quali si trovò poi imbrigliato e spesso castigato ogni barlume di spontaneità e creatività artistica.
Il Secentismo, inscrivibile nel più ampio contesto della civiltà barocca come uno dei suoi aspetti più cospicui e caratterizzanti per l’influsso esercitato lungo tutta l’epoca – si connota, innanzi tutto, per un intento particolare di precipua, radicale, opposizione a una tale tradizione letteraria, quale, appunto, si era sviluppata e consolidata nell’arco del Quattro-Cinquecento. Abbiamo già sottolineato come essa si sia, via via, consumata ed isterilita sulla linea di un’osservanza, divenuta parossistica, al principio d’autorità aristotelico e ai canoni della sua poetica, e in ossequio a un formalismo in cui il modello petrarchesco, formalisticamente rivisitato, originò moduli variamente ripresi ed enfatizzati in tutta la lirica cinquecentesca. Una tale presa di posizione significò, pertanto, la rottura di ogni schema passatista e il ripudio di un classicismo ormai vetusto, imbalsamato com’era in un formulario retorico e concettuale che doveva apparire troppo angusto e limitante per l’inventiva dell’autore.
Tuttavia tale cura ed esercizio della forma, aveva con l’andare del tempo, temprato le capacità d’uso della Lingua così che nel Rinascimento la prosa aveva raggiunto, e definitivamente conquistato, una scioltezza smaliziata ed elegante, e la poesia e la lingua poetica, una musicalità e una purezza formale davvero invidiabili. Trovandosene ora eredi, i secentisti sentono il possesso gioioso e pieno di tali doti, di tali preziosissime qualità, frutto di elaborato studio ed esercizio di intere generazioni, delle quali essi si considerarono non più gli epigoni e i ripetitori – come furono i tardo cinquecentisti – bensì il risultato più consapevole e maturo di una lunghissima gloriosa tradizione. Avvertirono, insomma – e se ne inorgoglirono – di essere il parto decisivo di un’epoca, l’esito mirabile che veniva a coronare di nuova sublime grandezza una tanto acclarata tradizione. Ed è qui il senso della famosa querelle“Degli Antichi e dei Moderni” che accompagna le teorizzazioni secentiste e l’elaborazione della nuova poetica.
Ma i grandi temi che avevano soggiogato gli animi dei nostri migliori artisti, fin dagli albori della nostra civiltà letteraria, erano irrimediabilmente tramontati. L’Amore non era più avvertito come pura e sublime idealità, alla maniera dei rimatori cortesi e degli stilnovisti, ma neppure secondo i canoni della rinnovata poetica del Petrarca e dei petrarchisti – che su tali moduli si erano esercitati per tutta la prima metà del Cinquecento. Ha perduto oramai quella tensione ideale che lo trasportava oltre la sfera del sensibile, in un campo straordinario di esperienze ineffabili collocate in una sorta di trasumanazione. Ora, solamente consiste in una morbida sensualità, è amore solamente profano. Benché mortificato o taciuto dall’etica controriformistica, appare in questo secolo XVII, nelle forme, pur variegate, di una sensualità lasciva e, a volte, stravagante, un puro diletto dei sensi, lontanissimo dall’esaltante esperienza d’amore di Dante o di un Cavalcanti o del Petrarca. Anche il tema della gloria terrena – carissimo agli umanisti e al Petrarca – degli onori raggiungibili con l’intelletto e con le opere grandi, declina anch’esso, negato come illusione e fatiscenza dell’Umano in confronto alla riaffermata visione controriformistica dell’Eterno.
Tutto il Barocco è questa crisi in cui i grandi miti e i valori del passato vengono meno e si preannunciano, ma oscuramente, non in chiara consapevolezza ancora, nuove tendenze. Per questo, grande fu nei Secentisti la carica rivoluzionaria avvertita nei confronti della tradizione e dei valori che ormai avevano fatto il loro tempo e perduto credibilità. Ma alla volontà demolitoria, all’apatia per i temi frustri del passato e al desiderio di sorpassare tale gloriosa ma oramai languente tradizione, e di sorprendere,creando finalmente qualcosa di inedito – il novello parto che annunciasse una nuova era per la poesia – nonostante tali ardue rivendicazioni, essi non seppero produrre nulla di sorprendente,non un riscontro che fosse veramente, compiutamente, adeguato ai loro ambiziosi programmi ed aspettative. Anzi, la poesia si trovò svalutata a brillante passatempo: un belletto da porgere alla realtà perché apparisse più gradita e fosse capace di donare un piacere tutto d’intelletto. Divenne uno sforzo d’ingegnosità mirante allo straordinario in un gioco intellettualistico inteso a indagare e a sminuzzare il reale, moltiplicando ed amplificando le sensazioni della meraviglia. Effetto, questo, sovente ottenuto replicando la metafora all’infinito, gonfiando l’immagine al punto da creare da essa una serie abnorme di metafore nuove e stupefacenti per il piacere dell’inedito, dello strano e dell’astruso che non di rado sconfinava nel cattivo gusto e nell’assoluta mancanzad’ogni misura.
L’intellettuale secentista – rispetto a quello rinascimentale – ha, nel frattempo, conseguito una diversa collocazione nella società: non è più strettamente legato alla corte del Signore, ma gode del superiore vantaggio di un pubblico più ampio – grazie ad una maggiore divulgazione dei testi ad opera della stampa – ed anche, in qualche misura, più omogeneo, dal momento che la popolazione appare praticamente distinta in due blocchi: da una parte il popolo, rozzo, miserabile, incapace di apprezzare il livello colto dell’arte, e quindi escluso dalla sua fruizione, dall’altra la cerchia, fattasi più cospicua, dei letterati e dei nobili – d’antica origine alcuni, altri di più recente estrazione capitalistica.
Ma la negazione di sbocchi marinari e mercantili, coll’avvenuta colonizzazione americana, ha ridotto o inibito i commerci e condotto l’Italia a un fenomeno di rifeudalizzazione poiché il capitale, prodottosi a partire dall’età comunale, non potendo investire nel commercio, ha investito in feudi.
Per avere una qualche idea dell’Italia secentesca e spagnoleggiante e del rapporto tra grandi masse plebee, nuovi arricchiti e nobili terrieri, si può facilmente richiamare alla memoria il vasto quadro manzoniano – di ampia e approfondita documentazione storica – ricreato ne I promessi sposi, intorno alla vicenda dei due protagonisti, e nell’altra importante opera di rivisitazione critica e storica che è la Storia della colonna infame: in esso campeggia l’ombra corrosiva di una nobiltà pretenziosa e arrogante, arroccata su privilegi e valori oramai tramontati, in quanto essa ha realmente esaurito la propria funzione storica e perduto il proprio peso politico. Ma ciò nonostante, il preteso lustro e il potere connesso ai nobili natali è difeso con oltraggiosa arroganza e con metodi di vessazione e di forza che si esercitano, soprattutto, su masse di deboli e di diseredati, il cui tenore di vita degrada da una dignitosa povertà alla più nera disperata miseria.
In tale contesto appare chiaro come temi e valori che erano stati, sino a poco tempo prima, dominanti – espressione di una nobiltà che nella sua origine era stata dell’anima ancorché del sangue e degli illustri natali – valori come l’Amore di derivazione cortese-petrarchesca – l’amor ch’al cor gentil ratto s’apprende – che pure tanta parte aveva occupato quale soggetto della lirica sino a tempi di poco anteriori, insieme agli altri valori che erano prossimi all’ideale cortese-cavalleresco, non potessero più conciliarsi, anzi impattassero duramente con questa nuova realtà e con tale dura e proterva genia di nobili. L’ideale cavalleresco e i valori connessi alla figura di questo nobile emblema compaiono talvolta, ma solo letterariamente, in funzione ornamentale e orpellica perché sono ormai lontanissimi dalla realtà e misconosciuti, o al più rivivono avviluppati nella torbida atmosfera del secolo, sostituendo a quell’alto profilo, a quella nobile simbolica figura, i tratti che sono loro propri, cioè quelli ben più prosaici di una nuova nobiltà, boriosa nella spagnolesca mania di grandezza; altezzosa e arrogante nella puntigliosa difesa di privilegi ritenuti intoccabili in virtù di un’appartenenza a un nome e a una discendenza di sangue, ma in realtà svuotati d’ogni consistenza, d’ogni fondamento e ragion d’essere.
Il decadere dell’aspetto eroico e nobile della cavalleria è chiaramente avvertibile, peraltro, nella creazione di un nuovo genere letterario che sorge a cavallo tra i due secoli, vale a dire, tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento: il poema eroicomico, ove viene parafrasato in chiave ironica, anzi messo in ridicolo, l’epos che la tradizione letteraria aveva sino ad allora glorificato ed esaltato. Ma il decadere di tali miti e valori ha nel suo seno una giustificazione intrinseca, storica: il venir meno del ruolo che la cavalleria aveva ricoperto per secoli, tenendo fede ai presupposti ideali che reggevano le fondamenta del suo status. Venendo meno i presupposti sui quali essa aveva esercitato tale funzione, anche il suo ruolo e i valori di cui si era fatta portatrice vengono meno.
Il nuovo intellettuale, però, non ha maturato nuove ideologie e nuovi valori che possano adeguatamente sostituire i primi. Egli non si identifica più con gli ideali di cui la cultura cortigiana ancora si fregiava – avendo sostituito all’epos cavalleresco un ethos di più ampio respiro che includeva nella sua accezione globale una spiritualità nuova, rinnovata dall’amore della conoscenza e dall’arte. Egli non ha più un retroterra che non sia nel retaggio di un lungo esercizio linguistico e formale che ha affinato le capacità d’uso della Lingua, ma non ne ha arricchito o rinnovato i temi. L’effetto culturale della Controriforma è poi una sorta di repressione tutta esteriore, una sorta di limite o contenimento imposto alle coscienze che non facilita l’esercizio critico o il rinnovamento spirituale. E già l’autoanalisi morbosa dell’ethos tassesco preannuncia l’espandersi di questa tendenza di incertezza e fragilità, di soggiogamento e voglia di riscatto, di riaffermazione di un proprio io, che altri vogliono sottomesso e negato, e che ci appare in tutta la sua patetica, ma anche drammatica, impotenza.
Ma se tale dibattimento e dissidio interiore ha nel Tasso toni autentici e profondi, nella maggior parte dei secentisti assume quasi un’impronta di falsità e cede senza drammi a un’ipocrita riverenza, a un’osservanza di facciata.
Formalmente acquiescenti ai valori che la morsa controriformistica ha imposto, impigliati in una cultura moralistica e impietosa, in un credo cui è categorico il rispetto, l’unica prospettiva che si pone, al di là di una coraggiosa e coerente opposizione, è il non-impegno che garantisce una tranquilla ed autonoma esistenza. Così il poeta finisce col preferire, all’impegno duro e doloroso della coerenza, la fuga in un mondo favoleggiante e arcadico. Ma nell’enfatizzazione bucolica la poesia è degradata a questo stesso non-impegno: diviene espressione della voluttà e del piacere sensuale, costruito sull’accantonamento della contingenza e degli ardui problemi che essa impone – come testimoniano invece gli spiriti più pensosi del tempo (da Campanella a Tasso, a Bruno, a Galilei, a Sarpi, a Boccalini) – e sulla ricerca di un facile sconfinamento nell’ameno mondo dell’immaginazione, ovvero verso una prospettiva di labili appagamenti, di fugaci emozioni, intellettualisticamente moltiplicate e artificiosamente ingigantite. Situazione paradigmatica, questa, di un periodo di crisi e di disorientamento ideologico e morale in cui l’intellettuale viene a perdere ogni legame autentico con la realtà.
L’opposizione programmatica dei secentisti nei confronti del classicismo è, perciò, velleitaria, e il tentativo di negazione del formalismo e dell’accademismo, che avevano imperato in tutta la seconda metà del Cinquecento, involve verso un nuovo formalismo, difeso a oltranza ed enfatizzato non meno che il primo.
Tuttavia, studi recenti, tra cui quello di Giovanni Getto in Italia, hanno tentato di rivalutare il Secentismo inquadrandolo nel più ampio movimento del Barocco che maggiori apprezzamenti aveva man mano riscosso in campo artistico.
di Rossella Cerniglia
Il processo seguito dalla nostra letteratura lungo tutto l’arco che dal Rinascimento giunge fino alle soglie del Barocco, evolve, nelle grandi linee, verso una progressiva consunzione e assottigliamento dei temi e verso un’altrettanto progressiva e isterilita cristallizzazione dell’elemento formale.
Tale processo consegue a una serie di cause di vasta portata storica che decretano il lento appiattimento della vita economico-sociale italiana, quali ad esempio la rottura col Levante turco e l’apertura delle nuove vie atlantiche, che privando di incisività e mordente l’interesse economico, determinano il depauperamento progressivo di ampie fasce sociali e il livellamento di quella che potremmo definire piccola e media borghesia verso una condizione di indiscriminata miseria.
La vita sociale e culturale della Penisola perde di conseguenza il vigore iniziale, quello dei tempi prosperi dell’età comunale, per restringersi intorno a pochi centri – le corti principesche – entro le quali l’intellettuale viene a trovarsi in una posizione sì di privilegio –sostenuta com’è dal mecenatismo dei principi – ma di isolamento, pure, dalla vita reale e di relegamento in un ambito alquanto ristretto.
Un esagerato regolismo, sviluppatosi via via per una crescente esigenza di rigore formale, era andato affermandosi lungo tutto il Cinquecento. Esso andava di pari passo con l’affievolirsi di temi e dei valori un tempo vivamente avvertiti nell’animo del poeta. Anche la valutazione dell’opera d’arte in esclusivo ossequio ai canoni della poetica aristotelica – divenuta, nel tempo, indiscutibile principio d’autorità nelle dissertazioni e nei dibattiti culturali dell’epoca – e le discussioni accademiche intorno alle funzioni e al valore della Lingua – inaugurate dal Bembo e variamente dibattute dal Machiavelli, dal Trissino, dal Castiglione e da vari altri intellettuali di allora – portarono all’accentuazione del formalismo e dell’accademismo e ad una sorta di consacrazione di schemi e convenzioni entro le quali si trovò poi imbrigliato e spesso castigato ogni barlume di spontaneità e creatività artistica.
Il Secentismo, inscrivibile nel più ampio contesto della civiltà barocca come uno dei suoi aspetti più cospicui e caratterizzanti per l’influsso esercitato lungo tutta l’epoca – si connota, innanzi tutto, per un intento particolare di precipua, radicale, opposizione a una tale tradizione letteraria, quale, appunto, si era sviluppata e consolidata nell’arco del Quattro-Cinquecento. Abbiamo già sottolineato come essa si sia, via via, consumata ed isterilita sulla linea di un’osservanza, divenuta parossistica, al principio d’autorità aristotelico e ai canoni della sua poetica, e in ossequio a un formalismo in cui il modello petrarchesco, formalisticamente rivisitato, originò moduli variamente ripresi ed enfatizzati in tutta la lirica cinquecentesca. Una tale presa di posizione significò, pertanto, la rottura di ogni schema passatista e il ripudio di un classicismo ormai vetusto, imbalsamato com’era in un formulario retorico e concettuale che doveva apparire troppo angusto e limitante per l’inventiva dell’autore.
Tuttavia tale cura ed esercizio della forma, aveva con l’andare del tempo, temprato le capacità d’uso della Lingua così che nel Rinascimento la prosa aveva raggiunto, e definitivamente conquistato, una scioltezza smaliziata ed elegante, e la poesia e la lingua poetica, una musicalità e una purezza formale davvero invidiabili. Trovandosene ora eredi, i secentisti sentono il possesso gioioso e pieno di tali doti, di tali preziosissime qualità, frutto di elaborato studio ed esercizio di intere generazioni, delle quali essi si considerarono non più gli epigoni e i ripetitori – come furono i tardo cinquecentisti – bensì il risultato più consapevole e maturo di una lunghissima gloriosa tradizione. Avvertirono, insomma – e se ne inorgoglirono – di essere il parto decisivo di un’epoca, l’esito mirabile che veniva a coronare di nuova sublime grandezza una tanto acclarata tradizione. Ed è qui il senso della famosa querelle“Degli Antichi e dei Moderni” che accompagna le teorizzazioni secentiste e l’elaborazione della nuova poetica.
Ma i grandi temi che avevano soggiogato gli animi dei nostri migliori artisti, fin dagli albori della nostra civiltà letteraria, erano irrimediabilmente tramontati. L’Amore non era più avvertito come pura e sublime idealità, alla maniera dei rimatori cortesi e degli stilnovisti, ma neppure secondo i canoni della rinnovata poetica del Petrarca e dei petrarchisti – che su tali moduli si erano esercitati per tutta la prima metà del Cinquecento. Ha perduto oramai quella tensione ideale che lo trasportava oltre la sfera del sensibile, in un campo straordinario di esperienze ineffabili collocate in una sorta di trasumanazione. Ora, solamente consiste in una morbida sensualità, è amore solamente profano. Benché mortificato o taciuto dall’etica controriformistica, appare in questo secolo XVII, nelle forme, pur variegate, di una sensualità lasciva e, a volte, stravagante, un puro diletto dei sensi, lontanissimo dall’esaltante esperienza d’amore di Dante o di un Cavalcanti o del Petrarca. Anche il tema della gloria terrena – carissimo agli umanisti e al Petrarca – degli onori raggiungibili con l’intelletto e con le opere grandi, declina anch’esso, negato come illusione e fatiscenza dell’Umano in confronto alla riaffermata visione controriformistica dell’Eterno.
Tutto il Barocco è questa crisi in cui i grandi miti e i valori del passato vengono meno e si preannunciano, ma oscuramente, non in chiara consapevolezza ancora, nuove tendenze. Per questo, grande fu nei Secentisti la carica rivoluzionaria avvertita nei confronti della tradizione e dei valori che ormai avevano fatto il loro tempo e perduto credibilità. Ma alla volontà demolitoria, all’apatia per i temi frustri del passato e al desiderio di sorpassare tale gloriosa ma oramai languente tradizione, e di sorprendere,creando finalmente qualcosa di inedito – il novello parto che annunciasse una nuova era per la poesia – nonostante tali ardue rivendicazioni, essi non seppero produrre nulla di sorprendente,non un riscontro che fosse veramente, compiutamente, adeguato ai loro ambiziosi programmi ed aspettative. Anzi, la poesia si trovò svalutata a brillante passatempo: un belletto da porgere alla realtà perché apparisse più gradita e fosse capace di donare un piacere tutto d’intelletto. Divenne uno sforzo d’ingegnosità mirante allo straordinario in un gioco intellettualistico inteso a indagare e a sminuzzare il reale, moltiplicando ed amplificando le sensazioni della meraviglia. Effetto, questo, sovente ottenuto replicando la metafora all’infinito, gonfiando l’immagine al punto da creare da essa una serie abnorme di metafore nuove e stupefacenti per il piacere dell’inedito, dello strano e dell’astruso che non di rado sconfinava nel cattivo gusto e nell’assoluta mancanzad’ogni misura.
L’intellettuale secentista – rispetto a quello rinascimentale – ha, nel frattempo, conseguito una diversa collocazione nella società: non è più strettamente legato alla corte del Signore, ma gode del superiore vantaggio di un pubblico più ampio – grazie ad una maggiore divulgazione dei testi ad opera della stampa – ed anche, in qualche misura, più omogeneo, dal momento che la popolazione appare praticamente distinta in due blocchi: da una parte il popolo, rozzo, miserabile, incapace di apprezzare il livello colto dell’arte, e quindi escluso dalla sua fruizione, dall’altra la cerchia, fattasi più cospicua, dei letterati e dei nobili – d’antica origine alcuni, altri di più recente estrazione capitalistica.
Ma la negazione di sbocchi marinari e mercantili, coll’avvenuta colonizzazione americana, ha ridotto o inibito i commerci e condotto l’Italia a un fenomeno di rifeudalizzazione poiché il capitale, prodottosi a partire dall’età comunale, non potendo investire nel commercio, ha investito in feudi.
Per avere una qualche idea dell’Italia secentesca e spagnoleggiante e del rapporto tra grandi masse plebee, nuovi arricchiti e nobili terrieri, si può facilmente richiamare alla memoria il vasto quadro manzoniano – di ampia e approfondita documentazione storica – ricreato ne I promessi sposi, intorno alla vicenda dei due protagonisti, e nell’altra importante opera di rivisitazione critica e storica che è la Storia della colonna infame: in esso campeggia l’ombra corrosiva di una nobiltà pretenziosa e arrogante, arroccata su privilegi e valori oramai tramontati, in quanto essa ha realmente esaurito la propria funzione storica e perduto il proprio peso politico. Ma ciò nonostante, il preteso lustro e il potere connesso ai nobili natali è difeso con oltraggiosa arroganza e con metodi di vessazione e di forza che si esercitano, soprattutto, su masse di deboli e di diseredati, il cui tenore di vita degrada da una dignitosa povertà alla più nera disperata miseria.
In tale contesto appare chiaro come temi e valori che erano stati, sino a poco tempo prima, dominanti – espressione di una nobiltà che nella sua origine era stata dell’anima ancorché del sangue e degli illustri natali – valori come l’Amore di derivazione cortese-petrarchesca – l’amor ch’al cor gentil ratto s’apprende – che pure tanta parte aveva occupato quale soggetto della lirica sino a tempi di poco anteriori, insieme agli altri valori che erano prossimi all’ideale cortese-cavalleresco, non potessero più conciliarsi, anzi impattassero duramente con questa nuova realtà e con tale dura e proterva genia di nobili. L’ideale cavalleresco e i valori connessi alla figura di questo nobile emblema compaiono talvolta, ma solo letterariamente, in funzione ornamentale e orpellica perché sono ormai lontanissimi dalla realtà e misconosciuti, o al più rivivono avviluppati nella torbida atmosfera del secolo, sostituendo a quell’alto profilo, a quella nobile simbolica figura, i tratti che sono loro propri, cioè quelli ben più prosaici di una nuova nobiltà, boriosa nella spagnolesca mania di grandezza; altezzosa e arrogante nella puntigliosa difesa di privilegi ritenuti intoccabili in virtù di un’appartenenza a un nome e a una discendenza di sangue, ma in realtà svuotati d’ogni consistenza, d’ogni fondamento e ragion d’essere.
Il decadere dell’aspetto eroico e nobile della cavalleria è chiaramente avvertibile, peraltro, nella creazione di un nuovo genere letterario che sorge a cavallo tra i due secoli, vale a dire, tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento: il poema eroicomico, ove viene parafrasato in chiave ironica, anzi messo in ridicolo, l’epos che la tradizione letteraria aveva sino ad allora glorificato ed esaltato. Ma il decadere di tali miti e valori ha nel suo seno una giustificazione intrinseca, storica: il venir meno del ruolo che la cavalleria aveva ricoperto per secoli, tenendo fede ai presupposti ideali che reggevano le fondamenta del suo status. Venendo meno i presupposti sui quali essa aveva esercitato tale funzione, anche il suo ruolo e i valori di cui si era fatta portatrice vengono meno.
Il nuovo intellettuale, però, non ha maturato nuove ideologie e nuovi valori che possano adeguatamente sostituire i primi. Egli non si identifica più con gli ideali di cui la cultura cortigiana ancora si fregiava – avendo sostituito all’epos cavalleresco un ethos di più ampio respiro che includeva nella sua accezione globale una spiritualità nuova, rinnovata dall’amore della conoscenza e dall’arte. Egli non ha più un retroterra che non sia nel retaggio di un lungo esercizio linguistico e formale che ha affinato le capacità d’uso della Lingua, ma non ne ha arricchito o rinnovato i temi. L’effetto culturale della Controriforma è poi una sorta di repressione tutta esteriore, una sorta di limite o contenimento imposto alle coscienze che non facilita l’esercizio critico o il rinnovamento spirituale. E già l’autoanalisi morbosa dell’ethos tassesco preannuncia l’espandersi di questa tendenza di incertezza e fragilità, di soggiogamento e voglia di riscatto, di riaffermazione di un proprio io, che altri vogliono sottomesso e negato, e che ci appare in tutta la sua patetica, ma anche drammatica, impotenza.
Ma se tale dibattimento e dissidio interiore ha nel Tasso toni autentici e profondi, nella maggior parte dei secentisti assume quasi un’impronta di falsità e cede senza drammi a un’ipocrita riverenza, a un’osservanza di facciata.
Formalmente acquiescenti ai valori che la morsa controriformistica ha imposto, impigliati in una cultura moralistica e impietosa, in un credo cui è categorico il rispetto, l’unica prospettiva che si pone, al di là di una coraggiosa e coerente opposizione, è il non-impegno che garantisce una tranquilla ed autonoma esistenza. Così il poeta finisce col preferire, all’impegno duro e doloroso della coerenza, la fuga in un mondo favoleggiante e arcadico. Ma nell’enfatizzazione bucolica la poesia è degradata a questo stesso non-impegno: diviene espressione della voluttà e del piacere sensuale, costruito sull’accantonamento della contingenza e degli ardui problemi che essa impone – come testimoniano invece gli spiriti più pensosi del tempo (da Campanella a Tasso, a Bruno, a Galilei, a Sarpi, a Boccalini) – e sulla ricerca di un facile sconfinamento nell’ameno mondo dell’immaginazione, ovvero verso una prospettiva di labili appagamenti, di fugaci emozioni, intellettualisticamente moltiplicate e artificiosamente ingigantite. Situazione paradigmatica, questa, di un periodo di crisi e di disorientamento ideologico e morale in cui l’intellettuale viene a perdere ogni legame autentico con la realtà.
L’opposizione programmatica dei secentisti nei confronti del classicismo è, perciò, velleitaria, e il tentativo di negazione del formalismo e dell’accademismo, che avevano imperato in tutta la seconda metà del Cinquecento, involve verso un nuovo formalismo, difeso a oltranza ed enfatizzato non meno che il primo.
Tuttavia, studi recenti, tra cui quello di Giovanni Getto in Italia, hanno tentato di rivalutare il Secentismo inquadrandolo nel più ampio movimento del Barocco che maggiori apprezzamenti aveva man mano riscosso in campo artistico.