La Marchigiana di Mendoza

La Marchigiana di Mendoza


Di Paola Cecchini

E’ diventata virale sul web la lettera con la quale Maria Teresa Barbera, titolare de ‘La Marchigiana’, ristorante tradizionale di Mendoza, ha risposto mesi fa ad Alberto Fernández, Presidente della Repubblica Argentina, che nel corso di una cerimonia a San Juan aveva fatto riferimento al valore del merito ed al suo rapporto con le opportunità (‘Ciò che ci fa evolvere o crescere non è il merito, come siamo stati portati a credere negli ultimi anni. Il più stupido dei ricchi ha più possibilità del più intelligente dei poveri’).

Dopo il tweet di dissenso dell’ex calciatore Gabriel Batistuta (‘Sono nato in una casa di 5 x 3 metri. Lavorando, studiando, confidando nella giustizia, i miei genitori mi hanno dato una casa più grande. Ho continuato i loro esempi sacrificando me stesso e rispettando gli altri.¿Ero un idiota per aver rispettato questi ideali?’), il dissenso di Maria Teresa non si è fatto attendere:

‘Non capisco questo governo, vuole sempre più persone povere mentre la bellezza dell’essere umano è integrarsi con il lavoro e con il rispetto. Hanno creato un sistema in cui se sei povero, sei inutile. Se sei povero, mettiti in fila! I loro concetti sono in contrasto con la nostra storia perché l’Argentina è nata con l’immigrazione. In Europa c’era nobiltà, c’erano ricchi e c’era la guerra. I nostri bisnonni sono venuti a lavorare qui perché non c’era futuro per loro nei loro paesi. Volevano cambiare e progredire e lo hanno fatto con il lavoro.

Le parole del Presidente, poi, sono oltremodo demoralizzanti per la società che in questo modo è autorizzata ad esprimere dubbi e dissensi nei confronti di persone che ricoprono le cariche più importanti del Paese. E soprattutto, quale futuro resta per oltre il 60% dei ragazzi poveri in Argentina?’

Maria Teresa è una forza della natura: Ha 86 anni, ha fatto 7 figli, ha 19 nipoti e 5 pronipoti. Lavora ininterrottamente da 73 anni (71 in cucina) nei ristoranti che via via ha realizzato e gestito con la sua famiglia (figli e nipoti).
Insignita di numerosi riconoscimenti e onorificenze, compare spesso sui giornali regionali ed anche nazionali come El Clarin, dove una foto la ritrae con Brad Pitt e
Gwyneth Paltrow.

L’intervista è stata realizzata a Mendoza il 9 febbraio 2020.

‘I miei nipoti mi esortono ad andare in pensione perché mi innervosisco quando sono in cucina. Io sono di un’altra generazione e voglio vedere le cose fatte perfettamente come sono stata abituata. Per me la cucina è una chiesa. E’ sempre stato così – inizia.

D Civitanova Marche è la tua città, Maria Teresa?
R Sì, la mia famiglia era di Porto Civitanova come si chiamava allora, sulla costa adriatica (io, eccezionalmente, sono nata a Roma). Sono partita da là

D Siete venuti direttamente qui?

R No, eravamo diretti a San Juan, a circa 170 km dove viveva mio zio Renato, il fratello di mamma che aveva lasciato le Marche anni prima perché contrario al regime di Mussolini. A quel tempo in Italia era impossibile trovar lavoro se non eri iscritto al Partito Fascista e questo mio zio non lo tollerava.

D Con chi partisti?

R Con mia madre Fernanda Torresi, una donna forte, determinata a cambiar corso alla sua ed alla nostra vita. Erano con noi mio fratello Giuseppe
di 16 anni, Angelo di 11 anni (abile a suonare la tromba che teneva gelosamente sempre con sé), mia sorella Gabriella di 8. Io avevo 13 anni.

D Tuo padre non era con voi?

R No, mio padre, professore di musica, era prossimo alla pensione e doveva sistemare i documenti. Ci avrebbe raggiunto più tardi.

D Non potevate aspettarlo e spostare la data di partenza?

R I biglietti non davano diritto, come oggi, a partire ad un certo giorno e ad una certa ora. Col biglietto si acquisiva l’accesso ad una lista di attesa che scorreva a mano a mano che i vari piroscafi della Compagnia scelta si riempivano. Noi partimmo nell’ottobre 1948. Ci accompagnò un altro fratello di mamma. I nostri parenti, vennero a salutarci al treno che ci avrebbe condotti a Genova.

D Che ricordi del viaggio in nave?

R Eravamo tutti italiani ma non ci capivamo gli uni con gli altri. I dialetti erano così diversi! Noi del Centro Italia non capivamo né quelli del Sud né quelli del Nord. Quando passammo Gibilterra, vedemmo di fronte a noi soltanto l’oceano, per tanto tempo. Ci spaventammo un po’.
Poi successe la disgrazia: Angelo si ammalò di difterite ed in pochi giorni morì. Piansi tanto per mio fratello e vidi mia madre stravolta dal dolore. Quel dolore lo compresi veramente molti anni dopo quando anche io persi mio figlio.
Nella disgrazia fummo fortunati: Angelo era morto nel Golfo di Santa Catalina, il giorno prima dello sbarco e così poté raggiungere il porto di Buenos Aires assieme a noi. L’ambulanza con la bara ci aspettava allo sbarco. Se fosse successo anche pochissimo prima, avrebbero dovuto buttarlo in mare.
Nel suo dolore mamma ringraziò Dio che le aveva fatto la grazia di poter seppellire il figlio. Si era sempre impietosita durante la guerra pensando alle tante madri dei soldati morti nelle nostre zone che non avevano fatto ritorno alle loro case. Per ironia del destino, tutti gli uomini della nostra grande famiglia (mio padre, i suoi due fratelli e nove fratelli di mamma) erano tornati sani e salvi dalla guerra.

D Quale fu la tua prima impressione dell’Argentina?

R Sbarcammo il 2 novembre 1948 sotto un sole splendente. Era primavera inoltrata. Durante il viaggio in treno verso San Juan mi colpì il paesaggio, estremamente piatto, senza colline, senza mai vedere il mare.

Arrivammo infine in città e ci dirigemmo al quartiere Trinidad dove abitava mio zio: strade di terra, senza alcuna illuminazione. Poi fummo di fronte alla sua casa, una casina piccola, con una porta tanto bassa che dovemmo abbassarci per entrare. Fine della fantasia: quella era la casa di mio zio, lo ‘zio ricco’, quello che ci appariva splendido nelle immagini che inviava, fatte sicuramente – come si usava al tempo – nello studio di un fotografo: vestito elegantemente, pettinato come un attore…La disillusione fu grande: fu come ricevere uno schiaffo improvviso in piena faccia. Quelle erano case di poveri: pavimenti di terra, letti nell’officina, cucina senza mattonelle!

Mi ricordo, Paola, quanto hai scritto sull’argomento nel libro ‘Terra promessa-il sogno argentino’…aspetta un po’, ce l’ho qui in sala, ho sottolineato quel passo (n.d.r. prende il libro e legge un commento di Adriano Colocci, già direttore del Corriere Adriatico che descrive la sua esperienza migratoria in Sudamerica):

‘L’emigrante, poco dopo sbarcato, quasi per bisogno di affermare a sé stesso come certezze quelle lungamente accarezzate speranze, comincia a scrivere in Italia sia vero o no, che si trova bene, che comincia a guadagnare, che diviene ricco. La speme di far fortuna lo ossessa talmente che una continua chimera dorata detta le sue sgrammaticate espansioni epistolari. E poi, a che dir la verità? Lasciate che laggiù, al mio paese, ci credano e crepino d’invidia!
E’ insensata la quantità di bugie che ad ogni corriere partono dall’America per meravigliare l’Europa! Nessuno vuol dire la verità, tutti vogliono far credere che arricchiscono o si arricchiranno! Naturale che dopo tante ciance inventate, uno si trovi per ragione d’amor proprio nella necessità di non far ridere tornando a casa squattrinato. Povertà per povertà, la si preferisce lungi da coloro presso cui costituirebbe umiliazione. La conclusione è che non si pensa più al ritorno, altro che in caso di diventar ricco’.
Succedeva proprio così.

D Che era successo?

R Zio Renato era arrivato nel 1931, in piena rivoluzione industriale. Era meccanico specializzato, ce n’erano pochi in Argentina in quel periodo. In poco tempo ottenne un lavoro di responsabilità nella fabbrica Bianchini, una delle più importanti del Paese, che dava lavoro a 1000 operai.

Quando fu in grado di sistemarsi ed assicurare un futuro sereno a sua moglie e suo figlio, li chiamò in Argentina come si faceva abitualmente. La moglie si rifiutò di partire: durante la sua assenza aveva conosciuto un altro uomo. Era una relazione che voleva mantener nascosta ma a quei tempi tutto si veniva a sapere, prima o poi, nelle città piccole. Alcuni paesani che arrivarono in Argentina lo informarono. La sua disillusione, il non saper nulla di suo figlio e gli sguardi dei compagni, estremamente umilianti per lui, lo distrussero. Decise di lasciare Buenos Aires, il suo lavoro e la posizione che aveva raggiunto ed andare dove non conosceva nessuno. Il destino lo portò a San Juan. Alcuni anni dopo il nostro arrivo sapemmo che si era innamorato di una brava ragazza e che erano una coppia felice.

D Dopo un po’ vi trasferiste a Mendoza…

R Sì, i miei erano andati al Mercato Centrale della città e avevano visto di fronte una pensione in vendita. Pension Marín, si chiamava.
La acquistarono vendendo i pochi gioielli di mamma e grazie al denaro prestato loro da Monseñor Olmos, vescovo di San Juan che mio fratello conosceva bene. La pagarono abbastanza cara ma a quel tempo non comprendevano bene il valore del peso.
M.Olmos era un sant’uomo e divenne un amico di famiglia. Venne personalmente a Mendoza a sposare me ed i miei fratelli.

D In che consisteva il lavoro nella pensione?

R Ospitavamo 20 pensionanti a cui davamo colazione, pranzo e cena. Io e mamma lavoravamo tutto il tempo ma anche Giuseppe, quando non frequentava la Facoltà di Medicina (aveva promesso ad Angelo, disteso nella bara che sarebbe diventato medico) e Gabriella (che frequentava l’Istituto Magistrale) non si tiravano indietro quando erano liberi.
Anche mio padre ci aiutava servendo ai tavoli ma faceva più danni che altro ed infine mamma gli permise di pensar soltanto alla musica.

D Com’era la pensione?

R Una catapecchia. In cucina il tetto perdeva acqua e ricordo mamma con un impermeabile in testa che girava il minestrone. Poi io correndo, portavo i piatti ben coperti ai pensionanti. Un giorno ad un cliente abbiamo dovuto mettere uno sgabello sotto i piedi perché non gli si bagnassero…
Mamma aveva il senso degli affari : quando entrarono i primi pesos, apportò subito migliorie: imbiancò i locali, comprò un ventilatore perché il caldo d’estate era feroce…Mettemmo dei tavolini all’aperto, fuori dall’entrata della pensione e cominciammo a pensare di organizzare un piccolo ristorante. Fu mio padre a scegliere il nome ‘La Marchigiana’.

D Che cucinavate?

R Abbiamo cominciato facendo le tagliatelle col ragù. Poi diventammo famosi nella zona per il brodetto che, come sai, è uno dei piatti tipici della nostra regione. Occorrono 10 pesci diversi, questa è la ricetta, ma qui eravamo in difficoltà: il mare era lontano e l’oceano non produceva tutta quella varietà, oltre al fatto di produrre pesci molto grandi… Utilizzavamo soltanto tre diverse qualità all’inizio, poi ci siamo organizzati col tempo…
Poi cucinavamo i vincisgrassi, la tipica pasta al forno…

D Le cosiddette ‘lasagne marchigiane’…

R Sì. Il ragù è diverso, preparato con carne tagliata grossolanamente e non macinata, oltre al fatto che qui la besciamella deve essere più soda, così da dare al piatto una compattezza maggiore. Inoltre la presenza delle spezie (chiodi di garofano e noce moscata) deve essere più avvertibile.

D Tu cucinavi con tua madre?

R No, mia madre cucinava e io servivo ai tavoli e facevo altri lavori ma con lei ho imparato i segreti della cucina e la sua presenza si fa più reale quando faccio la pasta.
Ben presto non soltanto migliorò il luogo dove lavoravamo, ma grazie alla nostra attività cambiò rapidamente anche l’aspetto della strada, Calle Patricias Mendocinas.

D Lavori ininterrottamente da allora?

R Non ho mai smesso di lavorare in cucina. Anche prima di partorire, ho sempre lavorato: mi coricavo all’una e mi alzavo alle otto.
Tra schiumaioli, padelle, mestoli e pentole mi trovo molto bene e ancor di più quando son pronti i cappelletti, gli spaghetti, le lasagne, gli agnolotti, il risotto o le pappardelle con salsa ai funghi e tacchinella che piacciono da morire ai nostri clienti…

D Sei sempre di buon umore quando cucini?

R Faccio il mio lavoro con allegria e certe volte ci metto tanto entusiasmo e decisione che mi sento come il direttore di un’orchestra: passo da un piatto all’altro, da una salsa di pomodoro, ad una bolognese. ad una di funghi. Allo stesso tempo faccio saltare le crespelle, metto fretta agli aiutanti, do coraggio ai pasticcieri, decoro un pesce con foglie di basilico… Una volta, ho detto al M° Gregorio Gutiérrez- dopo averlo visto dirigere il Requiem di Verdi- che anch’io mi sentivo una direttrice d’orchestra… Lui si è messo a ridere.

D Sono sicura che fosse d’accordo! Dopo tanti anni qui, ti senti più italiana o argentina?

Mi sento italianissima e quando i figli e i nipoti parlano italiano, i vincoli si affermano ancora di più, perché la lingua è come il suono delle campane del paese, è ciò che trasporta, riporta i ricordi e ti apre alla musica…
Ciononostante, la mia idea è che i miei figli e nipoti debbano amare la terra dove sono nati e questo significa difenderla con il lavoro, più che con una bandiera o un mazzo di fiori. Vivere guardando da migliaia di chilometri di distanza non serve a niente… lo amo questa terra, che è quella dei miei figli e dei miei nipoti e perciò anche la mia… e non sogno più l’Italia.

D Chi è un emigrante per te?

R Guarda, esistono uccelli migratori che se ne vanno in altri paesi quando arriva il freddo, perché sanno che altrimenti li aspetta la morte.
La natura è saggia, ordinata e cronometrica, molto più degli esseri umani che sono sempre assillati dai dubbi.
Cosa siamo noi emigranti? Forse siamo come quegli uccelli che vedevo all’orizzonte.

D Torni talvolta a Civitanova?

R Ogni volta che torno, mi prende una meravigliosa sensazione di pienezza che mi fa vibrare il cuore e tutto il corpo.
Non so come descrivere questa sensazione: sono i visi, i momenti vissuti, i rumori, la musica, gli odori, le campane della chiesa dove mia nonna non si perdeva mai la Santa Messa al mattino.

D E quando torni in Argentina che effetto ti fa?

R Quando ritorno in famiglia, alla mia cucina, al mio lavoro, ai miei amici, mi meraviglio di essere felice anche soltanto camminando per strada e guardando gli alberi. Scopro che il cielo assomiglia a quello della mia terra e mi domando: sono stata tagliata a metà? Sarà come amare due madri? Non è cosa facile. Eppure, ci sono dei momenti, come quando taglio il pesce, ferma nel mio lavoro, nei quali mi domando spaventata se non siamo qualcosa di simile anche noi, una coda di pesce.
E mi fa trasalire l’odore della menta, perché in quell’odore scopro l’aroma della campagna del mio paese. Che cosa strana siamo!’

Questa è la mia amica Teresa. Che ne pensate? Vi piace?


Paola Cecchini Redazione@progetto-radici.it

Redazione

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