Rincontrare Dante
DI GIANGI CRETTi
“La definizione mi sembra condivisibile: una ricorrenza è il passato che incontra il presente. Previa una constatazione, banale e forse per questo sottaciuta: il passato lo ricostruiamo (ciascuno pro domo sua talvolta lo addomestica), il presente, magari dolenti e persino indolenti, lo viviamo. Come spesso accade, diventa lo stimolo per tentare di porre parziale rimedio a voragini di ignoranza che puntualmente, in queste occasioni, improvvisamente si aprono. Insomma, richiamati dalla sollecitazione che ammonisce: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” è come se ad ogni ricorrenza ci rendessimo conto (almeno questo mi detta l’esperienza personale) di essere recidivi”. Inizia così l’editoriale con cui Giangi Cretti apre il primo numero dell’anno de “La rivista”, ora trimestrale, che dirige a Zurigo.
“Vale, va da sé, anche per il 700° anniversario della morte di Dante. Orfano dei ferri del mestiere necessari per esplorare, con piglio esegetico, il pensiero e l’opera del Sommo Poeta, altro non mi resta che ripiegare sull’(ignobile?) arte del saccheggio. Delle riflessioni altrui, naturalmente. Che ovviamente in questo periodo in copiosa quantità si rincorrono.
Accantonate – per i confessati limiti soggettivi – quelle più alte, lascio ai d(ur)antisti (Dante all’anagrafe si chiamava Durante) il compito e la competenza di dirimere questioni da 700 anni dibattute: Dante altero e superbo, che si erge a giudice supremo dei peccati altrui? Dante, priore (il grado più alto della magistratura cittadina) di Firenze, consapevole di esser un politico corrotto al pari di altri, per questo ritrovatosi “nel mezzo del cammin di nostra (sua?) vita” in una selva oscura?
Dante padre della lingua, che lui auspicava imposta dall’alto, anche se per secoli nella vita quotidiana fuori da Firenze non l’ha parlata nessuno; quasi come l’ebraico, la lingua della Bibbia che gli ebrei non hanno praticato per millenni, fino a quando non sono tornati nella Terra Promessa? Sorvolando sulle amenità che agitano il (pretestuoso?) dibattito del politicamente corretto: Dante che all’inizio del Trecento piazza i sodomiti all’Inferno è un omofobo ante-litteram?, concordo: le letture televisive e teatrali della Commedia (che altri, e forse non Dante, vollero Divina) di Gassman, Sermonti, Albertazzi e Benigni hanno effettivamente reso più famigliare il suono e la vitalità coinvolgente delle terzine del poema, sulle quali la scuola aveva per molti di noi messo ipoteche non facili da sciogliere.
Eccomi, pertanto, accodato a coloro che scelgono di ripercorrere la storia dell’uomo, inseguendo i documenti e le testimonianze attendibili, che, pur lasciando molti vuoti, consentono comunque di vagabondare fra la sua grandezza e le sue miserie, così da farcelo sentire più vicino. Indubbiamente capace di tradurre le proprie gioie e i propri patimenti in grandissima poesia. Che deriva dal greco poiesis. Che significa fare e creare, costruire inventando. La poesia di colui che, così gorgheggia il coro, ‘inventò l’Italia’, (s) qualificandola, forse per tradito amore o frustrazione politica, di volta in volta, come umile (nel significato, che il termine aveva all’epoca, di infelice) misera, miseranda.
“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”.
È un verso che descrive l’Italia a cavallo fra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo. Eppur, con registro diverso e metrica meno rigorosa, potremmo ritrovarlo in molte cronache che quotidianamente ci raccontano quella del ventunesimo secolo. Forse è anche per questa ragione che ridonda la domanda sull’attualità (modernità?) di Dante. Personalmente, mi piace pensare che traspaia da quella sua definizione del Bel Paese dove (ancora) il sì suona, e le genti sono unite dall’amore per la cultura e la bellezza”.