Habibi
Di Daniela Piesco
Israele ha utilizzato sistematicamente la “politica” degli arresti di massa e dell’imprigionamento della popolazione palestinese fin dalla sua costituzione nel 1948, continuandola dopo il ’67 con la
colonizzazione e l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, cui ci si riferisce oggi con TPO (Territori Palestinesi Occupati). Diverse sono state le strategie di repressione messe in campo da Israele per sopprimere la popolazione indigena palestinese: ma è importante capire che la detenzione e la reclusione di centinaia di migliaia di palestinesi hanno avuto un ruolo centrale nel tentativo di ‘criminalizzare’ qualsiasi resistenza e di distruggere la società palestinese per minarne alle fondamenta la capacità di costruire una società coesa e normale, necessaria per raggiungere la sovranità e l’autodeterminazione.
Tra i prigionieri del sionismo vanno considerati l’intera popolazione di Gaza rinchiusa nella più
grande prigione a cielo aperto della storia, la popolazione araba della Palestina occupata nel ’48 e confinata nei villaggi ghetto, i palestinesi della Cisgiordania imprigionati dietro il muro della vergogna che circonda i bantustan in cui sono costretti a vivere e anche i profughi palestinesi, di cui una gran parte non può mettere piede in Palestina.
Nell’anno appena trascorso si è avuta una intensificazione delle violenze contro i prigionieri politici palestinesi, con la morte di Arafat Jaradat, torturato a morte durante l’interrogatorio, e di Hany Abu Hamdiyeh, cui è stato negato il trattamento medico per il cancro. Si è avuto anche un aumento delle punizioni collettive e delle incursioni sui prigionieri, degli episodi di negligenza
medica e mala sanità nelle carceri, dell’uso dell’isolamento, dell’inasprimento dell’uso dalle ordinanze militari, tra cui la 1651, che prevede, tra l’altro, la detenzione e tortura di bambini sotto l’età di 16 anni, e la 101 in base alla quale si sono intensificati l’arresto e la detenzione di attivisti, di Difensore dei Diritti Umani, e di giornalisti.
Alla luce di queste aumentate violazioni,
organizzazioni palestinesi e anche israeliane hanno lanciato varie campagne per l’applicazione del diritto internazionale ai prigionieri palestinesi, tra cui una campagna internazionale per l’eliminazione della detenzione amministrativa, cioè la detenzione indefinita senza accusa né processo.
Uomini, donne e bambini palestinesi imprigionati, sono stati torturati e perseguitati nelle galere israeliane a causa della loro resistenza.
Si parla delle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere, delle loro lotte per la
dignità , anche attraverso lo sciopero della fame, del trattamento e dell’ingiustizia che subiscono nei tribunali israeliani; e dell’uso sproporzionato della forza nel corso di raid ed incursioni, per lo più notturne, effettuati nelle case delle famiglie per arrestare ma anche per terrorizzare.
Appare evidente che secondo le norme del Diritto Internazionale riguardanti
i prigionieri, Israele viola sistematicamente nella acquiescenza, o meglio con la complicità della cosiddetta comunità internazionale.
La questione dei prigionieri è molto sentita dai palestinesi, e proprio per questo le trattative per il rilascio di un certo numero di essi, peraltro selezionati e decisi da Israele, sono entrate a far parte dei cosiddetti colloqui di pace e dei tentativi, di parte statunitense, di rianimarli a tutti i costi.
La loro liberazione è diventata pertanto uno strumento nelle mani degli Israeliani, per ottenere sempre nuove concessioni, anzi per far finta di mantenere in vita un processo che tutti sanno essere finto ed inconcludente, e che, anzi, permette ad Israele di guadagnare sempre nuovo terreno sul campo.
Ciò premesso vorrei raccontare un ‘altra storia .
Una storia di lotta umana nel XXI secolo che mostra un altro lato del lungo conflitto contemporaneo tra Israele e Palestina .
Secondo un rapporto del febbraio 2021 dell’organizzazione per i diritti umani B’Tselem, circa 4.200 palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane, alcuni con condanne di venti o più anni. Visitare un detenuto palestinese in una prigione israeliana non è semplice: i visitatori devono superare una serie di limitazioni stabilite da leggi sui confini, regolamenti carcerari e restrizioni per la sicurezza israeliana.
I visitatori sono generalmente autorizzati a vedere i prigionieri solo attraverso un vetro e parlare con loro tramite un telefono. Le visite coniugali sono negate e il contatto fisico è vietato, ad eccezione dei bambini di età inferiore ai dieci anni, a cui sono concessi dieci minuti alla fine di ogni visita per abbracciare i propri padri.
Ebbene dall’inizio degli anni 2000, i detenuti palestinesi con lunghe condanne che desiderano avere figli contrabbandano il proprio sperma fuori dalla prigione, per procedere poi con la fecondazione in vitro.
Lo sperma viene tenuto nascosto in vari modi, ad esempio nei tubi delle penne o in involucri di caramelle. Ad oggi con questo metodo sono nati circa un centinaio di bambini.
Sono venuta a conoscenza di ciò imbattendomi nel World Press Photo of the Year 2021 : oltre alla foto dell’anno è stata premiata anche la World Press Photo Story of the Year 2021, riconoscimento che è andato per la prima volta a un italiano, Antonio Faccilongo di Roma, con un servizio per Getty Reportage dal titolo Habibi (“amore mio”)
Habibi, che in arabo significa “amore mio”, racconta le storie di alcune di queste famiglie, sullo sfondo di uno dei conflitti più lunghi e complicati di sempre.
È il racconto di una storia d’amore ambientata nel mezzo di uno dei conflitti contemporanei più lunghi e complicati, la guerra israelo-palestinese.
Le mogli dei prigionieri politici palestinesi, i quali stanno scontando condanne a lungo termine nelle carceri israeliane, per concepire nuovi figli, sono ricorse al contrabbando dalle prigioni dello sperma dei loro cari. Dal 2014, secondo la clinica per la fertilità Razan di Nablus, sono nati circa 90 bambini. L’inseminazione in vitro è offerta gratuitamente a queste donne poiché i loro mariti sono considerati dalla collettività come dei martiri viventi, i quali hanno rinunciato alla loro libertà per la patria. Sono circa 7000 i detenuti politici palestinesi, e quasi 1.000 di questi hanno una condanna che supera i 25 anni.
Le visite coniugali sono totalmente negate e i prigionieri palestinesi possono vedere i loro familiari più stretti solo attraverso una finestra di vetro. Il contatto fisico è vietato, c’è solo un’eccezione. Ai figli dei detenuti di età inferiore ai 6 anni è concesso un incontro di 10 minuti alla fine di ogni visita, nella quale possono abbracciare i loro padri. In questa occasione, con la scusa di offrire dei regali ai propri figli, i prigionieri inseriscono all’interno di barrette di cioccolato delle provette di fortuna con il loro liquido seminale. Questo è uno dei metodi più utilizzati dai prigionieri per poter avere dei nuovi figli e forse una delle poche speranze di avere una famiglia per le loro mogli.
Le vite di queste donne sono sospese in un’eterna attesa del ritorno dei loro mariti. Infatti uno dei principali motivi che spinge queste donne a fare l’inseminazione in vitro è la volontà a non arrendersi alla condizione di prigionia dei loro mariti e ad affrontare coraggiosamente le difficoltà della vita quotidiana allevando i loro figli da sole in una zona di guerra e molto instabile.
Quest’area troppo spesso viene mostrata solo come un luogo di guerra e conflitto, pieno di contrasto, soldati, azioni militari e armi. Habibi, che in arabo significa anche “ti amo“, mostra l’impatto del conflitto sulle famiglie palestinesi, cercando di comprendere una realtà nascosta dietro la guerra e analizzando le difficoltà che questo popolo incontra nel preservare la propria dignità umana.
Habibi potrebbe essere il racconto di quelle voci inascoltate che possono raggiungere il mondo se noi facciamo da tramite.
Daniela Piesco Vice Direttore Radici
Www.progetto-radici.it