Belgio (3. L’industria del carbone)
Di Paola Cecchini
L’estrazione del carbone in Belgio non rappresenta una novità del dopoguerra. Lo sfruttamento carbonifero risale, almeno nelle zone di Mons e Gilly, in Vallonia, fin dal XIII secolo.
Fino al Settecento l’estrazione avviene a cielo aperto, sia per l’insufficiente tecnologia estrattiva, sia per la maggior disponibilità del minerale negli strati più superficiali (le miniere non raggiungono di norma i cento metri di profondità).
Dall’Ottocento in poi, inizia lo sfruttamento delle gallerie sotterranee dei giacimenti a nord delle Ardenne, posti lungo il solco dei fiumi Mose e Sambre. Lo sfruttamento prosegue nella zona meridionale, nei bacini di Liège, Borinage, Charleroi e Basse Sambre.
Fra il 1820 e il 1850 il Paese diviene il massimo produttore di carbone del continente e tra i primi ad introdurre la tecnica della raffinazione, cioè della trasformazione in coke, utilizzato come carburante e come agente di riduzione nelle fornaci per la fusione dei minerali metalliferi (1827).
Nel sud della Vallonia, lungo i fiumi navigabili, sorgono i primi grandi stabilimenti siderurgici, chimici e della meccanica pesante, collegati alle miniere con reti ferroviarie.
Con l’inaugurazione della linea Bruxelles-Malines (1835), il Belgio diventa il primo paese europeo a dotarsi di ferrovie e – assieme all’Inghilterra – il paese a più rapido ed intenso sviluppo ferroviario.
Nel 1917 inizia lo sfruttamento del bacino di Campine, nel Limburgo, la provincia più settentrionale delle Fiandre: anche queste miniere appartengono ad imprenditori valloni, generalmente di Liegi, che sovente controllano tutto il ciclo produttivo, essendo proprietari anche delle acciaierie (questo spiega l’uso dominante dei termini francesi anche nelle miniere fiamminghe).
Per i minatori di ogni nazionalità, in ogni zona del Belgio la miniera sarà sempre ‘la mine’, come francesi saranno le denominazioni di incarichi, mansioni ed attrezzi collegati a questa attività.
Nel 1917 vengono aperte alla produzione le miniere di Winterslag; nel 1922 quelle di Beringen ed Eisden; nel 1924 quelle di Waterschei e Zwartberg; nel 1930 quella di Zolder e nel 1939 quella di Houthalen.
Nel corso dei conflitti mondiali la produzione diminuisce notevolmente, sia per la destinazione del personale al fronte, sia per l’impossibilità di modernizzare la tecnologia, tesa unicamente alla produzione bellica.
Durante il secondo conflitto, in particolare, la produzione decresce di oltre la metà, passando da 30 a 13,5 milioni di tonnellate l’anno.
Alla fine della guerra, i belgi rifiutano di scendere in miniera, consci dell’estrema pericolosità del lavoro richiesto e del basso salario elargito in cambio. Sono fortemente sostenuti dalle forze sindacali. I primi scioperi iniziano nel febbraio 1945, ancor prima della fine del conflitto.
Il primo ministro Achille Van Acker, titolare del dicastero dell’Industria Mineraria, dichiara che la guerra non terminerà per i belgi se non con la vittoria della ‘battaglia del carbone’ mediante cui si deciderà la sopravvivenza economica del Paese: coloro che rifiutano di ‘descendre au fond’ saranno considerati disertori e trattati di conseguenza.
I comunisti (che fanno parte per un breve periodo del governo) propongono di far lavorare al posto dei belgi i prigionieri tedeschi ed i collaborazionisti locali ma questa soluzione – seppur accettata- si rivela impraticabile nel lungo periodo.
Nello stesso mese lo Stato approva lo ‘Statuto del minatore’ che prevede miglioramenti di salari e di pensioni, ferie, case operaie, ma anche multe e prigione per chi, avendo la qualifica di minatore, rifiuta di continuare l’attività.
Questa tattica si rivela comunque fallimentare e, di fronte all’impossibilità di arrestare migliaia di persone, il governo decide l’importazione di manodopera straniera.
Il Governo polacco, contattato per primo, respinge l’offerta e così fa quello spagnolo. Trattative vengono intraprese con il Governo italiano di unità nazionale guidato da Alcide De Gasperi (la coalizione politica del I Governo De Gasperi è formata dai partiti DC, PCI, PSIUP, PLI, PD’A, PDL).
La proposta belga è racchiusa nel verbale n.931 del 12 marzo 1946 dell’Ambassade de Belgique in Roma. Per ogni scaglione di 1000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia
‘-tonn. 2.500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1.750.000;
-tonn.3.500 mensili, se la produzione sarà compresa tra 1.750.000 e 2.000.000 tonn.
-tonn.5.000 mensili, se la produzione sarà superiore a 2.000.000 tonn.’
Con nota del 15 marzo 1946 (D.G.A.F.-UFF.II 42/8447/8) il Governo italiano accetta formalmente la proposta.
Il 18 aprile successivo sono definiti a Roma gli accordi commerciali conseguenti all’accordo. Si stabilisce che tutte le somme versate dagli operai italiani a qualsiasi titolo saranno automaticamente accreditate in un conto speciale denominato Conto Operai Italiani, intestato all’Ufficio Italiano dei Cambi presso la Banca Nazionale Belga. Il conto sarà utilizzato anche per i versamenti che l’Italia effettuerà per pagare al Belgio il carbone.
L’Italia si assicura in tal modo entrate in divisa straniera e la possibilità di dotarsi di carbone, indispensabile alla ripresa economica del Paese (in realtà usufruisce solo parzialmente di questa convenienza, dato che il carbone belga é molto più caro di quello polacco ed americano).
Nell’ambito della conferenza italo-belga, organizzata a Roma dal 17 al 20 giugno 1946, viene definito il protocollo d’intesa che sarà siglato il successivo 23 giugno, recependo integralmente i termini dell’accordo ‘minatore-carbone’ sopra esposti.
Il numero degli italiani richiesto è definito in 50.000 (il numero concordato é raggiunto nel 1952 allorché si registrano in servizio 48.598 minatori italiani).
A norma dell’accordo, il governo belga si impegna a vigilare affinché le aziende carbonifere, raggruppate nella Fédéchar, garantiscano ai lavoratori italiani ‘convenienti’ alloggi (in conformità di quanto prescritto nell’art. 9 del contratto tipo di lavoro); un vitto ‘rispondente, per quanto possibile, alle loro abitudini alimentari’; condizioni di lavoro, provvidenze sociali e salari sulle medesime basi di quelle stabilite per i minatori belgi (Il 29 settembre 1938 gli accordi bilaterali italo-belgi avevano sancito a favore dei nostri connazionali l’uguaglianza dei salari, la concessione degli assegni familiari e l’accesso all’assistenza mutualistica).
Il Governo italiano si impegna ad informare i propri emigranti sul lavoro che li attende, per accedere al quale sono necessari un’età relativamente giovane (massimo 35 anni) e buona salute.
Si impegna altresì a delegare, in ciascuno dei cinque bacini carboniferi, una persona di fiducia con il compito di vigilare tanto sulla buona condotta dei connazionali quanto sulla tutela dei loro interessi particolari, oltre a designare un interprete che li accompagni dal luogo di partenza fino a Namur, a spese della Fédéchar.
La durata del contratto é fissata in dodici mesi.
All’inizio viene rilasciato ai minatori il permesso di lavoro B con durata annuale, rinnovabile ad ogni scadenza. Dopo cinque anni di lavoro in miniera, viene rilasciato il permesso di soggiorno A, la cui durata è illimitata. Chi emigra in Belgio con un contratto per le miniere non può svolgere altro lavoro se non dopo cinque anni consecutivi nelle mines.
A carico dei minatori è previsto il pagamento della tassa di soggiorno (‘per respirare l’aria del Belgio e per lavorare in miniera si doveva pagare trecento franchi: due giorni di lavoro: è duro. E’ questa la bella accoglienza che i belgi ci hanno fatto’) che verrà abolita nel giugno 1956.
A proposito dell’accordo ‘minatore-carbone’, molto è stato scritto sulla stampa belga (quasi nulla su quella italiana) in occasione delle manifestazioni commemorative del suo cinquantenario (1996).
Un aspetto, in particolare, ha dato luogo a discussioni e qualche polemica: l’emigrazione italiana può essere assimilabile ad una deportazione di manodopera, come i nostri connazionali non hanno esitato a definirla? O ha solo rappresentato l’inizio inevitabile di un processo di integrazione?
Dopo aver analizzato a fondo i termini dell’atto (scambio della merce nazionale, obbligo per gli italiani di eseguire quasi esclusivamente i lavori ‘di fondo’ e forte sfruttamento, dato che con l’arrivo degli italiani, si passò dalle 99 tonnellate annue di carbone per addetto nel 1945 alle 179 tonnellate nel 1950) lo storico Jacques van Solinge si è schierato a favore della prima tesi sostenendo che ‘l’accordo rimarrà senza dubbio come una delle più importanti deportazioni del nostro secolo in tempo di pace’.
Questa è anche la tesi sostenuta da Anne Morelli, docente presso l’Université Libre di Bruxelles, secondo la quale ‘gli Italiani non sono venuti in Belgio per costruirvi l’Europa o per raccogliere la sfida della battaglia del carbone. Il sistema feudale onnipresente nelle campagne italiane del Sud (con la sua miseria inaudita e le sue umilianti oppressioni) ha costretto centinaia di migliaia di contadini e di piccoli artigiani ad accettare tale deportazione. Essi non avevano altra scelta. E siccome parliamo di deportazione lo facciamo soppesando le parole e ben sapendo che deportazione vuol dire ‘esilio forzato in un luogo determinato’ .
Concorda con loro Bruno Ducoli, già direttore del Centre d’action sociale italien presso l’Université Ouvrière di Bruxelles:
‘L’immigrazione italiana in Belgio è stata un’immigrazione non accompagnata ed abbandonata troppo a lungo alle sue magre risorse intellettuali e finanziarie. Oggi si tenta di occultare questa pagina tragica. Questo giustifica il modo in cui l’Italia accoglie i suoi immigrati. L’Italia ha espulso dalla sua memoria storica quella tragedia nazionale che fu l’emigrazione verso il Belgio… ed oggi riserva ai lavoratori immigrati lo stesso percorso ad ostacoli che è stato riservato agli italiani 50 anni fa.
Questa analisi è stata vivacemente contestata da Michel Dumoulin, presidente dell’Institut Historique Belge de Rome:
‘Parlare di deportazione come ai tempi del nazismo è far credere che carabinieri armati rastrellassero le campagne italiane, alla ricerca di contadini che, sottomessi e rassegnati, venivano raggruppati in centri di smistamento per essere poi spediti in Belgio in vagoni piombati’ (Vers l’avenir, 29 giugno 1996).
Ha espresso un parere simile Francesco Corrias, al tempo ambasciatore italiano in Belgio:
‘Per un Paese totalmente distrutto dalla guerra e dilaniato dalle contraddizioni interne, era innanzitutto un accordo di speranza, che dava una sicurezza di lavoro a coloro che incontravano in Italia enormi difficoltà, e garantiva contemporaneamente una fonte di energia indispensabile alla ricostruzione. Quelli che sono venuti qui hanno anche importato dei valori, hanno creato qualcosa di differente e quelli che li hanno ricevuti hanno dovuto modificare pregiudizi, accettare un altro modo di essere. Da un esodo doloroso, è scaturito questo fondamentale ed importante dialogo tra società belga e lavoratori italiani. Oggi gli italiani in Belgio rappresentano la prima comunità straniera, perfettamente integrata, che vanta personalità, protagonisti della vita politica (come il vice primo ministro Elio Di Rupo), sociale e culturale belga’ (Le Soir, 20 giugno 1996).
Una cosa è certa: l’emigrazione verso il Belgio non è stata una libera scelta, come le migrazioni in genere non lo sono mai. A spingere migliaia di disperati ad emigrare all’estero fu la mancanza di lavoro, e conseguentemente la fame e la miseria vissute in Italia:
‘In Italia una volta mia mamma mi aveva mandato a comprare dieci lire di conserva di pomodoro. “Dammene per dieci lire” dico alla negoziante.
‘No, te ne posso dare solo per cinque lire ’- mi ha risposto.
E mi ha dato la metà di un cucchiaio. Io ero arrabbiato e sono andato dalla mamma a protestare che la commerciante mi aveva trattato così male.
“Giorgio- mi ha detto mia madre- fintanto che non paghiamo dobbiamo accettare quello che ci danno.
E’ stata la prima volta che ho capito cos’era la povertà. Allora siamo veramente poveri, mi sono detto’ (Giorgio Dalle Molle)
Molti emigranti avevano già lavorato nelle miniere italiane:
‘All’epoca, prima della guerra, c’era molto bisogno del trasporto a spalla. Per la legge di Mussolini per lavorare ci voleva o la quinta elementare e 14 anni o 15 anni compiuti. Ma in molte miniere lavoravano anche tanti carusi che erano i bambini di età inferiore. Si faceva così: si prendeva un contadino di 15 anni e senza che lui sapeva niente gli si faceva fare un certificato di nascita col nome di un altro per campare 4 o 5 anni. L’altro era un bambino di 10-11 anni però se moriva non figurava. Uno moriva e uno campava, che era uguale’ (Lucio Donati).
Tra il 1946 e il 1963 espatriano in Belgio oltre 240.000 italiani. Sono tanti, ma quasi invisibili agli occhi della popolazione locale: non conoscono la lingua e sono spesso esclusi dai locali di ristoro cittadini. Nei loro alloggi, situati fuori dai centri abitati, è precluso l’accesso ai sindacalisti di sinistra.
Il Partito Comunista – presente fin dal 1922 nella comunità italiana e molto attivo anche durante la Resistenza – spera di poter organizzare e rappresentare i nuovi immigrati, di norma critici verso il governo italiano che li ha ‘venduti per un sacco di carbone’. Resta deluso: diversi suoi esponenti di rilevo- come Cleto Alpi e Luciano Mencaraglia- sono espulsi dal Paese, mentre ‘Italia libera’, il periodico che aveva sostituito ‘Italia di domani’, viene sciolto.
Finanziato dalle Acli, dal sindacato cattolico belga, dagli Stati belga ed italiano, nel 1947 esce sul mercato editoriale ‘Il Sole d’Italia’, settimanale cattolico fortemente anticomunista, fondato e diretto da Umberto Stefani.
Con il fine di risolvere i problemi dell’operaio ed evangelizzare il mondo del lavoro, viene istituita l’’Opera nazionale assistenza religiosa e morale per gli operai’ (Onarmo).
L’accoglienza dei minatori italiani é riservata ai missionari ed ai patronati Acli. Sono completamente assenti dalla vita politica e sindacale il Partito Socialista e la ‘Fédération générale du travail de Belgique’ che inizieranno ad operare nella comunità italiana solo alla fine degli anni Settanta.
Sarà la tragedia di Marcinelle a rivelare all’opinione pubblica l’ingente presenza dei nostri connazionali e la loro esistenza piena di sacrifici.
(da Paola Cecchini, ‘Fumo nero- Marcinelle 1956-2006’, Regione Marche,2006)
Redazione Radici
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