BELGIO (n.4-Il viaggio degli italiani verso le miniere belghe)

BELGIO (n.4-Il viaggio degli italiani verso le miniere belghe)


Paola Cecchini

Il reclutamento dei minatori avviene agli inizi in maniera sommaria.
Le informazioni sono diffuse attraverso le Camere del Lavoro o i manifesti di color rosa affissi nelle sedi comunali.

‘Ho saputo dell’emigrazione quando il Comune ha messo un manifesto nel quale c’era scritto che cercavano minatori per Germania, Francia e Belgio. Io ero operaio ma sulla mia carta hanno scritto minatore. Erano obbligati a farlo. Non so perché sono venuto in Belgio, ma erano loro che sceglievano, mica noi.
‘Tu vai di là e tu di qua!’- dicevano (Pasquale De Lucia)

Agenti della Fédéchar sono segretamente autorizzati a scegliere la manodopera direttamente in Italia, tra i settentrionali raccomandati dalle autorità religiose e dalle opere pontificie, perché ritenuti ‘più docili e meno esigenti’.
La Sicurezza Belga partecipa alla cernita per allontanare i candidati indesiderati (sovversivi o comunisti).
Nessuna precisazione viene fornita, almeno all’inizio, sulle condizioni di lavoro al fondo delle miniere. Nessun addestramento viene effettuato in Italia né in Belgio.
L’unico requisito richiesto é la buona salute.

‘Io facevo il contadino. Mi trovavo nel campo mentre passava un amico.
Che fai- mi disse- ci vuoi venire in Belgio?
Io: E andiamo.
Avevo circa 30 anni. Ma io il Belgio non sapevo dov’era’. (Giuseppe M.)

E’ la prospettiva di un lavoro sicuro a far espatriare migliaia di giovani:
‘A Casarano facevo il contadino e guadagnavo 400 lire al giorno. Seppi che in Belgio ne avrei guadagnato 2200. Con i soldi che spedivo ogni mese in Italia, circa 30.000 lire, riuscii a comprare un piccolo terreno e a costruire anche una casetta (Lucio Parrotto).

‘Prima di decidere di partire…avevo fatto i lavori più disparati: il pescatore con mio padre, a caricare carrelli, il manovale… Stanco di questa situazione presentai due domande all’Ufficio del Lavoro: una per fare il palombaro a Genova e un’altra per fare il minatore in Belgio. La prima risposta che ricevetti fu quella per il Belgio e così emigrai. Partii nell’aprile del 1948, assai probabilmente il 18 poiché mi ricordo la delusione che provai quando venni a sapere…della sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni politiche’ (Giuseppe Devincenzi)

La selezione si svolge a Milano, dove tutti i candidati – di norma contadini, artigiani o operai – sono radunati in attesa del treno settimanale diretto oltrefrontiera.
All’inizio le operazioni di espatrio (viste mediche e stipula dei contratti di lavoro) hanno luogo nei piani sotterranei della stazione ferroviaria di Milano. Talvolta, a causa del soprannumero, hanno luogo direttamente in treno.

‘Un rappresentante delle miniere, un medico ed un agente di polizia esaminavano in una sola notte anche duemila candidati, mentre due ingegneri predisponevano i contratti di lavoro.
Le visite le hanno fatte di corsa, così all’impiedi, senza spogliarmi senza niente, come i cavalli e via. Mi ha chiamato uno e mi ha detto: Di’, Masi, cosa hai avuto? Sei mai stato malato?
Così, in piedi’(Agostino Di Masi)

‘Del viaggio mi ricordo le tre giornate che siamo stati a Milano, che è stata una cosa indimenticabile. Siamo andati in un dormitorio gigantesco che faceva spavento per quanto era grande. C’erano i letti a castello a tre piani. C’erano tutte quelle persone che si riempivano il cuscino di panini che sembravano che non avevano mai visto da mangiare… Quando siamo arrivati in Belgio la gente aveva ancora i cuscini pieni di panini, avevano fatto la scorta… Poi, arrivati in Svizzera, abbiamo visto le prime banane’ (Giuseppe Lo Giudice)

Successivamente le visite mediche, organizzate presso la caserma di fanteria in piazza Sant’Ambrogio, divengono più dettagliate per evitare di assumere persone di salute cagionevole che male avrebbero sopportato le dure condizioni di vita in miniera.

‘Sono rimasto veramente sorpreso e anche molto male, perché in fondo si vedeva bene che cercavano una manodopera di muscoli, belli e sodi, gente che potesse lavorare duro. Eravamo tutti in fila in faccia a questa commissione di medici, e davanti a me c’era proprio un mingherlino che sembrava non avere muscoli. E vedo allora a questo dottore che si é alzato, ha fatto il giro, é andato a sentire, a palpargli i muscoli. Mi sono sentito male e mi sono detto: “Ma è mai possibile? Al mio paese quelle cose lì le fanno ai buoi quando vanno a lavorare nei campi’ (Angelo Verardo)

Si parte da Milano il lunedì mattina, alle sette. Ogni convoglio porta circa 950 persone. A Chiasso, dopo l’ispezione doganale, il treno viene chiuso per ragioni comprensibili: la Svizzera, è noto, rappresenta il sogno degli emigranti, che non ne fanno mistero:
‘Siamo partiti in 104 dall’Italia e a Waterschei siamo arrivati in quattro. Molti sono scappati’(Luigi G.)
Il viaggio è lungo e dura anche due giorni, in treni affollati e senza riscaldamento, con sedili di legno:

‘Mi ricordo che abbiamo dovuto viaggiare nelle giunture dei treni, dove si attaccano le carrozze. Io ero seduto su un sacco e mia madre teneva mia sorella piccola in braccio. Viaggiavamo così perché i posti non c’erano. Mia madre stava seduta su un altro pacco di fronte a me e mi teneva per i pantaloni per impedirmi di cadere. Io avevo 3 anni e mezzo e mia sorella 14 mesi’ (Gaetano Lentini)

‘Quando siamo saliti abbiamo messo i nostri bagagli e tutto quello che avevamo sul treno ma il posto non c’era…allora abbiamo messo tutto fra la congiuntura delle due carrozze, il cosiddetto soffietto, ma almeno ci fosse stato il posto per stare in piedi! Invece c’era solo per un piede alla volta e così il viaggio è durato dalla sera alle undici sino alla sera dopo le undici, ventiquattro ore sempre in quella maniera lì. Siamo arrivati più morti che vivi’ (Giuseppe M.)

La scelta della miniera avviene spesso in treno ma è una scelta al buio:

‘In treno c’erano delle persone belghe che incitavano la gente: “Chi vuole venire nella mia miniera, chi vuole venire, la nostra miniera è meglio”. A me sono capitate persone di Waterschei e abbiamo detto “Va bene” e così siamo venuti qua…Non so perché abbiamo deciso di venire qui. Noi non sapevamo niente…’(Giovanni Liberti)

A Bruxelles, i treni arrivano nell’area della stazione normalmente riservata alle merci, allo scopo di evitare l’attenzione di lavoratori e sindacalisti locali.
Poi via di nuovo verso Charleroi, Liège, Hasselt o Mons.

‘Siamo arrivati a Mons che eravamo completamenti agghiacciati. Il treno si era fermato per molto tempo, perché c’era la neve e noi non avevamo né copertina né niente. I bambini li coprivamo con la giacca…A Mons non c’era neanche la gare perché era tutta bombardata e abbiamo trovato le caldaie a carbone che funzionavano, per avere almeno un po’ di caldo’. (Angela S.)

Dei camion sporchi, normalmente destinati al trasporto del carbone, portano i futuri minatori a destinazione.

‘Mi ricordo le urla: “Cinque a me! Dieci di qua!”: ci smistavano sui camion non come bestie ma quasi’ (Adriano Biffi)

‘La nostra destinazione è Cité Linderman, nel comune di Zolder. Durante il percorso passiamo davanti allo stabilimento della miniera, poi davanti alla chiesa, all’ospedale ed infine al cimitero. Qui la prospettiva si faceva grigia; abbiamo fatto gli scongiuri e siamo riusciti a cavarcela senza troppo danni’ (Carlo Dolci)
Alla stazione ci ha preso la guardia della mina e quando io l’ho vista, ho detto: “Ma chi è quello lì. Non ci vengo con voi”. Lui parlava francese ma io non capivo niente. Piangevo, non volevo andare…
Poi lui ha detto: “Bagage”. Io ho pensato che stava offendendo mia madre perché per noi quella parola è un’offesa e ho cominciato a gridare…’(Giovanni Barberi)
E’ un viaggio molto stressante, seppur per motivi completamente diversi, quello che anni dopo compie Francesca Casamassima per raggiungere il marito emigrato quattro mesi prima a Winterslag. Francesca parte dalla provincia di Taranto nel dicembre 1963, con i suoi bambini (un maschietto di sette anni e una bimba di due anni e mezzo). Assieme a lei parte anche la sorella con i suoi figli (uno di due anni e mezzo e l’altro di tre mesi). Ecco quanto racconta quarant’anni dopo:

‘La partenza mi dava gioia ed angoscia nello stesso tempo: gioia perché così potevo raggiungere mio marito ed angoscia perché lasciavo la mia terra e i miei cari che tanto amavo. Con loro lasciavo anche tutti i miei ricordi…
Ricordo come fosse ora: era il 6 dicembre del 1963…Arrivati a Milano con i quattro piccini e con tanti bagagli non era facile scegliere se bisognava badare ai bambini oppure occuparsi dei bagagli.
Bisognava cambiare treno e in quel momento tutto era diventato grigio su quel binario: non c’era più nessuno per prendere i nostri bagagli e così mia sorella è andata a vedere se trovava qualcuno che potesse aiutarci, mentre io sono rimasta a fare la guardia ai pacchi e alle valigie e nello stesso tempo e badare ai bambini.
Dopo un po’ mia sorella ritornò e mi fece capire che un portabagagli sarebbe venuto ad aiutarci e ciò ci fece coraggio.
In quel momento, però, l’altoparlante annunciò che sul sesto binario era in partenza il treno diretto in Belgio.
Come fare, con i bagagli accatastati lì accanto e con dei bambini che intanto tremavano dal freddo mentre il treno partiva senza di noi?
Senza pensarci due volte presi tutti i bambini e li portai di peso e di corsa fino al treno per farli almeno restare un po’ più al caldo. Nel frattempo mia sorella aspettava con grande ansia il portabagagli e questi tardava ad arrivare.
La mia angoscia cresceva ad ogni istante, finalmente decisi di agire: lasciai da soli i bambini sul treno e corsi a vedere che cosa succedeva a mia sorella e alle tante valigie e pacchi.
Mentre, correndo, cercavo di andarle incontro, mi scoppiò quasi il cuore nell’udire l’altoparlante che annunciava l’imminente partenza del treno per il Belgio.
Non potei più trattenere le lacrime e cominciai a correre come una pazza gridando che nel treno si trovavano i nostri bambini da soli.
Anche mia sorella gridava e correva, seguita dal povero portabagagli stracarico di pacchi e valigie il quale cercava di calmarci scusandosi perché si sentiva in colpa per non aver potuto venire prima.
Eravamo uno spettacolo disperato: correvamo come pazze, gridando e facendo grandi gesti con le braccia. seguite dal portabagagli, rosso in viso, che gridava anche lui. Il capostazione, che era in procinto di dare il via libero al treno, si rese conto di quello che era accaduto e ci diede la possibilità di raggiungere la carrozza dove si trovavano i bambini che, anche loro, gridavano e piangevano dalla paura.
…Uno scossone ci sbatté sui sedili segnalandoci che questa volta il treno era veramente partito…
(da ‘Fumo nero-Marcinelle 1956-2006, Paola Cecchini, Regione Marche, 2006)

Redazione Radici

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