Thomas Mann: fascino e contraddizioni dell’intellettuale decadente
di Rossella Cerniglia
Dopo il successo de I Buddenbrook, nel periodo che va dal 1903 al 1912, Thomas Mann incomincia a tratteggiare la fisionomia spirituale di un tipo umano che sarà il protagonista dei nuovi racconti Tristano, Tonio Kroger, e la Morte a Venezia.
Si tratta dell’intellettuale fin de siècle, coi suoi problemi, le sue inquietudini e le sue aspirazioni di sconfinata grandezza che gli fanno rifuggire la quotidianità e medietà borghese, in un’ansia mai soddisfatta di ideali purezze.
È la malattia decadente quella che prende corpo nell’intellettuale e nell’artista di queste opere di Mann. Una malattia consapevolmente sofferta, sapendo essi che la loro sofferenza è ciò che li eleva al di sopra degli altri, ma al contempo li castiga, emarginandoli dalla società dei cosiddetti normali.
Di ciò è consapevole Tonio Kroger, e lo stesso è per Aschenbach nel suo inseguire quel suo ideale di perfezione e di bellezza che gli è tanto più caro della stessa vita.
Nell’artista e nell’intellettuale in cui matura questa visione è tuttavia, sotterranea e struggente, la scissione della sua anima e della sua personalità in cui si mescolano e lottano l’orgoglio di un’indole superiore e la nostalgica aspirazione ad una vita normale.
In Hanno, ultimo erede dei Buddenbrook, la vitalità sembrava andarsi estenuando col progredire della sua passione per la musica, e la malattia che infine lo vince rappresenta non solo il limite estremo di quel processo di decadenza che investe la famiglia e interamente la società, ma altresì la non conciliazione tra la sua arte e la normale vita borghese.
Nel Tristano, la storia si svolge nel sanatorio “La Quiete” lo stesso in cui sarà ambientata la vicenda de La montagna incantata, opera per la quale Mann ottiene il Nobel nel 1929.
In questo racconto, il protagonista Detlev Spinell è uno scrittore non affermato e di modeste capacità, assai lontano dalla figura di Von Aschenbach – il protagonista di La morte a Venezia – che possiede una solida cultura umanistica e un passato di artista affermato.
Al suo confronto, il personaggio di Spinell sembrerebbe, più che altro, un concentrato degli aspetti discutibili, e per lo più negativi dell’artista di quei tempi. La definitiva sconfitta del suo sogno di vita e di amore avviene con la morte di Gabriella – la donna che aveva incontrato nel sanatorio – e col disprezzo per il marito di lei che non aveva saputo cogliere tanta spirituale bellezza.
Anche Tonio Kroger é incentrato – come era stato a partire da I Buddenbrook, attraverso la figura di Hanno, e quindi con il Tristano – sul rapporto antitetico tra artista e mondo borghese, ovvero tra l’arte e la vita realmente vissuta.
Nel personaggio si accentuano ancor più gli elementi autobiografici – relativi soprattutto alla complessa psicologia dell’autore – ed è probabile che questo sia almeno uno dei motivi per cui egli definisce questo racconto come l’opera sua più riuscita, la più congeniale e aderente al suo spirito, e la più vicina al suo cuore.
In effetti, pur nella sua brevità, essa ci appare come un condensato delle problematiche presenti nella narrativa manniana, e in se stessa, un piccolo e prezioso capolavoro.
Il protagonista, Tonio Kroger, ci conquista col grande fascino della sua anima, con la profondità e limpidezza del suo discernimento, coi suoi turbamenti, le speranze e le giovanili illusioni, l’insicurezza e la sua perenne problematicità.
Riassume in sé le antinomie e le ambivalenze presenti nell’autore, le polarità più insistenti e discordanti, che lo scindono e lo contrappongono a se stesso, e che potrebbero riassumersi nella inconciliabilità tra una vita pienamente e gioiosamente vissuta – vale a dire quella più fortunata dei cosiddetti “normali”, e l’altra solo contemplativa e fittizia dell’artista.
Una contrapposizione tra una luminosa, gioiosa, naturalezza e l’immobilismo, la tetraggine, la solitudine di chi contempla tale flusso espansivo e avvincente – qual è appunto la vita agli occhi dell’artista – dal quale rimane, tuttavia, dolorosamente escluso.
Già da adolescente, Tonio Kroger è consapevole di questa sua irrevocabile diversità, della sua estraneità al mondo e agli altri, del suo doloroso non essere parte di quella ordinarietà che pur rigetta, ma il cui desiderio lo tormenta.
Rimpianto e struggente nostalgia sono i sentimenti con cui guarda al mondo dei mediocri, agli occhi azzurri e ai capelli biondi di Hans Hansen e di Ingeborg Holm, la ragazza di cui si innamora.
Ed essi, personaggi di opposta polarità, rappresentano proprio il paradigma di questa: sono le più fulgide espressioni di pura vitalità, di sicurezza, di vigore, di ridente solarità.
Tesori solo presenti allo sguardo di Tonio, ma realtà spiritualmente distanti e inattingibili. Il mondo e la vita sembrano fatti per loro, appartengono, in tutto e per tutto, a loro, alla loro categoria di esseri gradevoli e amati perché spontanei e naturali e belli, ma al tempo stesso, parte di quella medietà borghese, ordinaria e banale, che Tonio disprezza. Ed è questa la contraddizione insanabile che non ammette alcuna conciliazione dialettica, e rimane insoluta.
Ma la malattia da cui Tonio è segnato sembra portare in sé un destino di morte. Essa è connaturata alla grande tempra artistica, è lo stigma della scrittura, della letteratura e di ogni elevata creazione artistica.
Una malattia tormentosa, di emarginazione e solitudine, di inquietudine e angoscia senza scampo, è dunque quella che consuma il grande artista, ma ad essa egli deve la grandezza della sua opera, e come un monaco o un sacerdote, ad essa deve fare offerta di sé, e sottostarvi con dedizione totale. La sua contropartita è l’essere morti al mondo e a se stessi.
Nell’altro lungo racconto La morte a Venezia, è narrato il tentativo estremo e struggente dell’artista di concedersi finalmente alla vita. L’illusione, che ha il fascino di una sirena incantatrice, è costituita dalla visione del giovainetto Tadzio, dalla bellezza olimpica, da quel fulgido raggio di grazia che interamente lo pervade: un ideale di cui il protagonista, Gustav von Aschenbach, si era costantemente nutrito nella sua lunga vita di studioso e di scrittore.
Aschenbach si trova a Venezia per un caso non premeditato, quasi fortuito: un improvviso desiderio di abbandonare la vita che gli era propria, la scrittura e quanto lo aveva tenuto avvinto alla catene della sua arte, l’unica realtà veramente vissuta sino a quel momento.
In questo imperioso, rapace, indomabile desiderio, Aschenbach rappresenta ancora una volta il dissidio interiore che travaglia l’autore: la sua insanabile scissione tra arte e vita, le letali antinomie della sua anima, declinate in svariate forme nella sua opera, e mai conciliate.
L’incontro a Venezia con il giovinetto Tadzio, ospite con la famiglia dello stesso albergo in cui soggiorna Aschenbach è elemento determinante della vicenda.
Egli diverrà l’incarnazione non solo dell’ideale classico della bellezza come perfezione di tutte le forme, ma, come si era detto, un richiamo fortissimo a quella vita alla quale Aschenbach si era negato, divenendo sacerdote di una vita diversa, quella dello spirito e dell’arte.
Il fascino leggiadro e gentile del giovinetto attrae profondamente Aschenbach e lo induce a seguirlo per le calli intricate della città lagunare, vagheggiandone la luminosa bellezza, le fattezze che sembrano quelle di un giovane dio ignaro della sua deità.
E Aschenbach, da posato e severo intellettuale qual era, ora è ottenebrato da quest’unico pensiero e sembra andare a caccia di tanta bellezza, appostandosi e spiando, non visto, il passaggio di quello, di quella visione di splendida e conturbante grazia: un tentativo estremo di ritrovare una nuova inusitata pienezza di vita che sino ad allora sconosceva – e che sconfinerà financo in umanissimi patetici accenti quando Aschenbach cercherà di ringiovanire il suo aspetto con l’uso di tinture e cosmetici.
Ma nel frattempo scoppia a Venezia un’epidemia di colera. Gran parte della vicenda perciò si muove in questa atmosfera di malattia e di morte che sembra preludere e rappresentare l’intera vicenda e il suo tragico epilogo. Atmosfera malata che in sé rappresenta – come è nella letteratura decadente – la malattia dell’anima: inquieta, tormentata, divisa.
Aschenbach – proprio quando pensa di abbandonare Venezia – ne viene colpito, e muore mentre sulla spiaggia contempla per l’ultima volta l’oggetto del suo desiderio, l’idolo di bellezza che a poca distanza da lui si intrattiene con altri coetanei.
In questa morte si esplica, ancora una volta, l’inattingibilità dell’artista ad una vita piena e gioiosa. E il reale e materiale tendere alla bellezza sublime, vagheggiata nell’arte, mostra, pur sempre, nel suo tragico epilogo, l’inconciliabilità di tali irriducibili antinomie dell’anima.
Rossella Cerniglia ,scrittrice.
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