“Sekhmet, la Potente”: dal Museo Egizio di Torino a Bologna
Dal 7 luglio scorso e sino al 31 dicembre 2023 un’ospite di eccezionale rilievo troverà dimora presso il Museo Archeologico di Bologna grazie al progetto espositivo “Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città”, a cura di Daniela Picchi.
L’iniziativa è resa possibile dalla generosa collaborazione con cui il Museo Egizio di Torino ha concesso in prestito uno dei suoi capolavori più rappresentativi: una statua colossale di Sekhmet, materializzazione terrestre della temibile divinità egizia con testa di leonessa e corpo di donna, di cui il museo torinese conserva una delle più grandi collezioni al di fuori dell’Egitto, composta da 21 esemplari.
Divinità dalla natura ambivalente, al contempo di potenza devastatrice e dispensatrice di prosperità, Sekhmet, ovvero “la Potente”, venne raffigurata in varie centinaia di statue per volere di Amenhotep III, uno dei faraoni più noti della XVIII dinastia (1388-1351 a.C.), allo scopo di adornare il recinto del suo “Tempio dei Milioni di Anni” a Tebe Ovest.
Alcuni studiosi ipotizzano che il gigantesco gruppo scultoreo fosse composto da due gruppi di 365 statue, una in posizione stante e una assisa per ogni giorno dell’anno, così da creare una vera e propria “litania di pietra”, con la quale il faraone voleva pacificare Sekhmet tramite un rituale quotidiano.
La regolarità dei riti in suo onore servivano infatti a placarne l’ira distruttrice che la caratterizzava quale signora del caos, della guerra e delle epidemie, trasformandola in una divinità benevola e protettrice degli uomini.
Nella collezione egizia del Museo Civico Archeologico di Bologna è presente il busto di una di queste sculture che – grazie al confronto con la Sekhmet seduta in trono proveniente dal Museo Egizio di Torino – potrà così riacquistare, almeno idealmente, la propria integrità creando una proficua occasione di confronto e ricerca scientifica.
La statua sarà esposta nell’atrio monumentale di Palazzo Galvani e andrà ad arricchire un importante repertorio di materiali lapidei, sia di proprietà civica, tra i quali un raro busto in marmo di Nerone, sia di proprietà statale, che la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara ha depositato presso il museo.
Dall’alto dei suoi 2,13 metri di altezza, Sekhmet potrà così accogliere il pubblico e introdurlo alla visita della collezione egizia, continuando a svolgere quella funzione protettrice per la quale era stata commissionata da Amenhotep III mentre, al suo cospetto, il visitatore potrà rivivere la stessa emozione che il sacerdote dell’antico Egitto doveva provare quando entrava nel cortile del Tempio per pronunciare il nome della “Potente” e invocarla nelle sue preghiere per placarla e propiziare ogni estate la fertile esondazione delle acque del Nilo.
Sekhmet, la Potente
Il pantheon egizio conta numerose divinità femminili associate al culto solare e una di queste è Sekhmet, il cui nome significa “la Potente”. La temibile dea era considerata dagli Egizi l’Occhio del Sole, emblema del potere divino che tutto vede, la Furia nel mondo degli dei, che si erge sotto sembianze di serpente Ureo anche sulla fronte dei sovrani, proteggendoli.
Come racconta il Mito della Vacca Celeste, attestato per la prima volta durante il regno del faraone Tutankamun (1333-1323 a.C.), il demiurgo Ra aveva inviato Sekhmet sulla terra per punire gli uomini in rivolta contro gli dei. La leonessa, inebriata dall’odore del sangue, avrebbe annientato l’intero genere umano se Ra non fosse intervenuto nuovamente, su suggerimento del dio della saggezza Thot, facendo versare in un lago una grande quantità di birra colorata con ocra rossa. Attratta dal colore e pensando si trattasse di sangue, la dea ne bevve sino ad ubriacarsi, dimenticandosi del precedente odio verso gli uomini e trasformandosi in Hathor, il principio femminile creativo, al quale era associato anche l’arrivo della piena del Nilo in Alto Egitto.
Tale trasformazione non sorprende se si considerano le divinità egizie come manifestazioni diverse di un più ampio concetto di divino.
La pericolosa e furente Sekhmet, oltre a poter inviare sulla terra pestilenze e malattie, adeguatamente adorata, era anche in grado di prevenirle e guarirle, tanto da avere un sacerdozio, quello dei “puri sacerdoti di Sekhmet”, dedito alla cura delle vittime colpite da afflizioni invisibili e apparentemente divine come la peste (definita anche “l’anno di Sekhmet”).
La manifestazione di culto più eclatante nei confronti di questa divinità leontocefala si deve al faraone Amenhotep III (1388-1351 a.C.), che, in occasione del suo giubileo, la celebrazione del trentesimo anno di regno, trasformò le litanie innalzate per placare Sekhmet negli ultimi cinque giorni di ogni anno, i Giorni dei Demoni, in una impressionante litania di pietra, facendo scolpire oltre 700 sculture rappresentanti la dea in posizione stante e assisa in trono. Per quanto le statue siano state rinvenute in diverse aree templari tebane (numerose nel Tempio di Mut a Karnak, Tebe Est), molti studiosi ritengono che la loro collocazione originaria fosse Kom el-Hattan, il “Tempio dei Milioni di Anni” di Amenhotep III a Tebe Ovest, e in particolare il cortile solare al suo interno. In tale maniera il sovrano si garantiva la protezione della dea in terra e partecipava del periplo divino del sole del quale Sekhmet era una manifestazione.
La collaborazione tra Istituzione Bologna Musei e Fondazione Museo delle Antichità Egizie
L’iniziativa espositiva “Sekhmet, la Potente. Una leonessa in città” è organizzata dal Museo Civico Archeologico in collaborazione con il Museo Egizio di Torino nel quadro di un intenso dialogo e confronto, volti a promuovere lo studio e la ricerca scientifica sui rispettivi patrimoni collezionistici.
Nel 2014 l’Istituzione Bologna Musei e la Fondazione Museo delle Antichità Egizie hanno sottoscritto un accordo avviando una collaborazione finalizzata al costante scambio di contenuti scientifici e divulgativi per la creazione di un “museo diffuso” a livello locale, nazione e internazionale. In base a tale accordo scientifico, di recente prorogato sino alla fine del 2023, sono stati intrapresi progetti di ricerca congiunti, sono state scambiate informazioni sulle reciproche collezioni e sullo scavo di Saqqara, che il Museo Egizio dirige in partnership con il Museo Nazionale di Antichità di Leiden, oltre ad essere stati resi disponibili al prestito a breve e a lungo termine vari oggetti.
Nel 2015, in occasione della mostra Egitto. Splendore Millenario organizzata dal Museo Civico Archeologico di Bologna (16 ottobre 2015 – 17 luglio 2016), il Museo Egizio di Torino ha apportato un contributo significativo all’esposizione concedendo in prestito materiali databili all’Antico e Medio Regno, oltre ad un vaso in alabastro proveniente dalla tomba a Saqqara di Djehuti, scriba reale e preposto ai paesi stranieri settentrionali durante il regno del faraone Thutmose III (1479-1425 a.C.).
A conclusione della mostra, i materiali databili all’Antico e Medio Regno sono stati lasciati in deposito a Bologna sino alla fine del 2023.
Pur essendo considerata la terza per importanza in Italia, infatti, la sezione egizia del Museo Civico Archeologico è caratterizzata da un numero relativamente esiguo di manufatti databili al Pre-protodinastico, all’Antico e al Medio Regno.
Tale deposito ha permesso di integrare queste lacune cronologiche e tipologiche fornendo così una conoscenza migliore della civiltà egizia sia al numeroso pubblico scolare sia al folto pubblico adulto che visita il museo bolognese annualmente.
Dal 2017 Daniela Picchi, curatrice della Sezione Egizia di Bologna, è membro del comitato scientifico della Rivista del Museo Egizio (RiME), pubblicata on-line a cadenza annuale, che promuove, raccoglie e diffonde le ricerche su tutti gli aspetti della collezione del Museo Egizio di Torino e sui siti archeologici da esso indagati oggi e in passato, nonché studi su argomenti aventi una rilevanza indiretta per la collezione.
Nel 2020 il Museo Civico Archeologico di Bologna si è reso disponibile a far scansionare i propri rilievi della tomba di Horemheb e di Ptahemwia provenienti dalla necropoli di Saqqara a integrazione dei modelli 3D dei rispettivi contesti funerari elaborati dal 3D Survey Group del Politecnico di Milano che collabora con il Museo Egizio di Torino.
Nel 2021 il Museo Egizio di Torino e il Museo Civico Archeologico di Bologna hanno aderito al gruppo di lavoro “Blu Egizio Network (BLUENET)”, che rientra nelle attività del Centro linceo di ricerca sui beni culturali “Agostino Chigi” presso Villa Farnesina. Il gruppo di lavoro si prefigge di contribuire fattivamente al progredire degli studi nel campo del blu egizio, il più antico pigmento sintetico della storia, esaminandone l’utilizzo dall’antico Egitto al Rinascimento.
Il museo di Bologna intende avviare un programma di indagini diagnostiche dedicato alla propria collezione egizia, condividendo le medesime linee di ricerca e metodologie d’indagine del Museo Egizio di Torino al fine di una più efficace lettura e confronto dei risultati diagnostici ottenuti.
Il prestito a lungo termine della statua della dea Sekhmet, che accoglierà i visitatori nell’atrio monumentale del Museo Civico Archeologico di Bologna sino alla fine del 2023, rappresenta quindi solo l’ultimo atto di una proficua collaborazione che confidiamo continui ancora per molti anni e numerosi altri progetti.
La collezione egizia di Bologna conserva un busto di statua che rappresenta la dea a testa di leonessa e corpo di donna Sekhmet. Come la stragrande maggioranza dei reperti egizi del Museo Civico Archeologico, anche questo busto appartenne alla raccolta di antichità del pittore Pelagio Palagi e arrivò in città nel 1861.
I documenti di archivio sino ad ora rintracciati non permettono di stabilire da chi e quando Palagi l’abbia acquistato, mentre possiamo affermare con certezza che la scultura fu fatta eseguire dal faraone Amenhotep III per il “Tempio dei Milioni di Anni” a Tebe Ovest in occasione del suo giubileo.
Ad oggi le statue di Sekhmet riconducibili a questo sovrano, rinvenute in area tebana o rintracciate nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, sono oltre 700, alcune finite e altre ancora in corso di lavorazione.
Il busto di Bologna appartiene al gruppo delle sculture finite, e cioè incise, polite e verosimilmente dipinte in antico. Il punto di frattura della statua, poco al di sotto del seno, impedisce di sapere se la dea fosse rappresentata in posizione eretta o seduta su un trono, così come di stabilire quali attributi divini stringesse nelle mani.
Un incavo presente alla sommità del capo rivela la presenza di un diadema divino, il disco solare, che poteva essere ornato dal serpente ureo, manifestazioni del potere della dea quale Occhio del Sole, pupilla del dio Ra.
Statue colossali della dea Sekhmet sono conservate nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Il Museo Egizio di Torino possiede ventuno di queste sculture – dieci mostrano la dea seduta in trono, undici in posizione stante -, che rappresentano uno dei nuclei più consistenti fuori dall’Egitto, secondo solo a quello del British Museum che ne vanta trenta esemplari.
Fu il naturalista Vitaliano Donati, inviato in Oriente e in Egitto dal re Carlo Emanuele III per esplorare questi territori e riportarne in patria antichità e campioni mineralogici, botanici e zoologici, a scoprire nel 1759 la prima statua di Sekhmet, da lui identificata con la dea Iside, che sarebbe poi stata trasferita a Torino. Grazie al Giornale di Viaggio di Donati sappiamo che la scultura fu rinvenuta nel Tempio della dea Mut a Karnak, una delle aree tebane dalla quale ne provengono molte altre. La statua e tutti i materiali raccolti da Donati arrivarono a Torino dopo la sua morte, avvenuta nel febbraio del 1762 a bordo di una nave turca con destinazione la costa di Malabar.
Le restanti venti statue arrivarono a Torino nel 1824 con la collezione del Console di Francia Bernardino Drovetti, che fu acquistata dal re Carlo Felice di Savoia all’ingente costo di 400.000 lire piemontesi. La gran parte di queste era stata scoperta nel 1818 presso il sito di Karnak da Jean-Jacques Rifaud, uno degli agenti utilizzati da Drovetti per raccogliere antichità su tutto il territorio egizio. Lo testimoniano le scritte incise da Rifaud sulla base di alcune Sekhmet, che riportano nome, luogo, data e committente: “Scoperta da J. Rifaud. Scultore a Tebe. 1818. Al servizio del signor Drovetti”. Da quanto scrive Rifaud nel suo diario, nel corso dei secoli le sculture erano state in parte spostate dalle loro sedi originarie, sia perché riutilizzate da sovrani successivi ad Amenhotep III, come attestano ad esempio iscrizioni ramessidi presenti su alcune sculture torinesi, sia per le continue trasformazioni e ampliamenti dell’area templare di Karnak.
Dal 1824, anno di inaugurazione del Regio Museo di Antichità ed Egizio di Torino, le ventuno statue raffiguranti la leonessa Sekhmet impreziosiscono le cosiddette sale dello Statuario al piano terra del Palazzo che ancora oggi ospita il rinnovato Museo Egizio. (aise)