Dopo i ponti aerei

Dopo i ponti aerei

di Filippo Grandi

 L’evacuazione da Kabul sta per terminare, ma siamo solo all’inizio di una crisi più grave.


Fuggire dal proprio Paese natale comporta uno straziante senso di perdita. Le scene verificatesi all’aeroporto di Kabul in questi ultimi giorni hanno suscitato un’enorme ondata di compassione in tutto il mondo di fronte alla paura e alla disperazione vissute da migliaia di afghani. Ma quando queste immagini scompariranno dai nostri schermi, continueranno a esserci milioni di persone che avranno bisogno di supporto da parte della comunità internazionale.


Nell’esortare i talebani e tutte le altre parti coinvolte a rispettare i diritti umani, specialmente quelli di donne e bambine, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha detto che il mondo non distoglierà lo sguardo.

Ma, finora, la nostra attenzione è stata troppo limitata.

Gli sforzi compiuti per le evacuazioni hanno indubbiamente salvato decine di migliaia di vite e sono encomiabili ma sappiamo che quando i ponti aerei e l’attenzione mediatica svaniranno, la stragrande maggioranza degli afghani, circa 39 milioni di persone, resterà in Afghanistan.


Hanno bisogno che noi – governi, operatori umanitari, semplici cittadini – restiamo al loro fianco per continuare ad aiutarli.


Circa 3,5 milioni di persone sono già stati costretti a fuggire dalle violenze all’interno del Paese, di cui oltre mezzo milione dall’inizio di quest’anno. La maggior parte non può ricorrere a canali regolari per mettersi in salvo. E, nel mezzo di un’evidente emergenza che vede milioni di persone necessitare disperatamente di aiuto, la risposta umanitaria all’interno dell’Afghanistan continua a essere gravemente sottofinanziata.

Alcuni afghani sono ancora sfollati all’interno del Paese, mentre altri, in seguito ai combattimenti, cominciano a fare ritorno alle proprie terre.
Tutti fanno affidamento su programmi umanitari il cui dispiegamento deve essere intensificato in tempi rapidi.


Per alcuni afghani sarà inevitabilmente necessario tentare di mettersi in salvo oltreconfine. Devono poter esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale e, a tal fine, è necessario tenere aperte le frontiere. I Paesi confinanti con l’Afghanistan accolgono rifugiati da decenni e hanno bisogno di ricevere maggiore sostegno. Oggi, potrebbero dover far fronte a nuovi afflussi dall’Afghanistan, continuando, allo stesso tempo, ad accogliere i rifugiati afghani le cui prospettive di fare ritorno nel paese si sono fatte più esigue, e altre persone che erano partite per ragioni familiari, professionali o mediche e non possono più ritornare in sicurezza.


Per quattro decenni, Pakistan e Iran hanno accolto milioni di rifugiati afghani. Sebbene un elevato numero di essi abbia fatto ritorno a casa dopo il 2001, sperando in un futuro migliore, questi due Paesi continuano ad accogliere circa 2,2 milioni di rifugiati afghani registrati, quasi il 90 per cento del totale. Mentre continuiamo ad appellarci affinché le frontiere restino aperte, è necessario che un maggior numero di Paesi condivida queste responsabilità sul piano umanitario, non ultimo in considerazione della situazione critica in cui si trova la Repubblica Islamica dell’Iran, alle prese con la pandemia.


I rifugiati avranno inoltre bisogno di soluzioni a lungo termine. La stragrande maggioranza potrebbe fare ritorno volontario quando le condizioni lo consentiranno e nel momento in cui lo riterrà più opportuno. Di fronte a questi numeri, l’opzione del reinsediamento in Paesi terzi – una soluzione destinata ai più vulnerabili affinché possano ricominciare le proprie vite in un Paese nuovo – rappresenta una possibilità solo per una minima parte di tutta la popolazione rifugiata nel mondo. Eppure, perfino per questo gruppo di persone più fragili, dopo 40 anni di incessante conflitto in Afghanistan, così come per altre crisi legate a migrazioni forzate nel mondo, il numero di posti di reinsediamento disponibili è ancora gravemente inadeguato.


È indispensabile garantire un numero maggiore di posti per il reinsediamento. Sono di fondamentale importanza, non solo per salvare vite umane, ma anche come dimostrazione di buona volontà e di sostegno nei confronti di quei Paesi che si sono assunti la maggior parte delle responsabilità nell’aiutare le persone in fuga.


Mentre le persone di tutto il mondo accolgono gli afghani nelle proprie comunità e nelle proprie case, non possiamo dimenticare le persone rimaste indietro.


È nostro dovere rispondere con urgenza e con un piano efficace alle esigenze umanitarie critiche presenti in Afghanistan e nei Paesi della regione. Essere al fianco del popolo dell’Afghanistan significa essere al fianco di tutti gli afghani, abbiano essi tentato di fuggire oltre confine o stiano cercando di ricostruirsi una vita nel Paese.


Le persone che hanno lottato per ottenere un posto sui voli di evacuazione dall’aeroporto di Kabul non sono diverse da quelle che potrebbero giungere alle nostre frontiere nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Negli ultimi giorni, abbiamo dimostrato vicinanza e solidarietà nei confronti degli afghani. Continuiamo a farlo. È arrivato il momento di dimostrare di essere davvero all’altezza dell’appello alla cooperazione internazionale espresso dalla Convenzione del 1951 sui Rifugiati e riaffermato nell’ambito del Global Compact sui Rifugiati.


I ponti aerei da Kabul cesseranno tra pochi giorni e la tragedia che si sta dispiegando non avrà più la stessa visibilità. Ma continuerà a costituire la realtà quotidiana per milioni di afghani.


Non volgiamo lo sguardo altrove. Una crisi umanitaria di entità molto più grave è solo all’inizio. 

Filippo Grandi*
* Alto Commissario ONU per i Rifugiati 

Redazione Radici

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