Argentina in Italia
di Paola Cecchini
L’emigrazione è un evento molto importante nella vita di chicchessia, un evento ansiogeno, indipendentemente da chi lo compie, in qualsiasi epoca, a qualsiasi età.
Ho fatto tante interviste ad italiani emigrati in Argentina di cui conosco anche le espressioni, dato che siamo connazionali.
Ma che dicono gli argentini emigrati in Italia?
Che pensano dell’Italia quando arrivano? L’hanno trovata come si aspettavano?
La testimonianza che riporto -inclusa nel mio saggio ‘Terra promessa – il sogno argentino’ appartiene ad un’intellettuale argentina con ascendenza italiana, Patricia Monica Vena, originaria di Rosario, venuta col marito artista plastico nelle Marche per lavorare (vive vicino Monteprandone). Erano gli Anni Novanta.
Patricia mi racconta la difficoltà per gli italiani di inquadrare lo straniero diverso dall’ammiratore incondizionato, dal superturista; la difficoltà di offrire un’apertura, che- se appare semichiusa ai discendenti di italiani- si presenta come fondamentalmente ostile e derogabile solo sul piano della necessità per flussi del tutto diversi culturalmente.
Il senso di estraneità che Patricia avvertiva si rileva da tanti aspetti:
1) il paesaggio rurale italiano:
pur ritenendolo affascinante, perché pieno di ritmo e colori, Patricia non riesce a sentirlo proprio. Continua a sentire più naturali le infinite pianure argentine, i lunghi chilometri desolati delle pampas, “quella sensazione della vista che si perdeva lontano, senza sbattere contro nessuna collina”.
2) il paesaggio urbano italiano:
in confronto alle città italiane, “mi impressionò la quantità di cielo dei quartieri di Rosario, dove la gran maggioranza delle case é bassa, a un solo piano, dando così una sensazione di maggiore spazio e aria, rispetto alle strade strette e fiancheggiate di case a due o tre piani di qualsiasi paesello o città d’Italia, dove a volte sembra che neanche il vento osi entrare. È come se le città argentine fossero cresciute come un elemento in più del paesaggio, e da lì la necessità di conservare spazi aperti, vegetazione abbondante, parchi pieni di verde che ripetono i motivi della natura circostante. Mentre le città italiane mi sembrano piuttosto il rifugio che gli uomini si costruiscono per proteggersi dalla natura e da altri uomini, per avvicinarsi gli uni agli altri e mantenersi uniti e quindi più forti; e quando hanno bisogno della natura, non la vanno a cercare dentro il villaggio, ma escono da esso e vanno verso la campagna, a lavorarla, a domarla, a goderla”
3) la società italiana:
“Mentre scoprivamo paesaggi e paesini stupendi, lottavamo gomito a gomito contro le ostilità, comprensibili ma non giustificabili, di una società non abituata ad accogliere altre culture, società che, anzi, era stata storicamente emigrante nel mondo e perciò non era equipaggiata neanche a livello legislativo per incorporare persone che venivano da altre realtà.
Non sapendo cosa far di noi, gentilmente ci ignorava”
4) il sottosviluppo economico e culturale
“Con il tempo capivamo che ci sono diversi tipi di sottosviluppo. Scoprivamo che il sottosviluppo più notorio dell’Argentina è di tipo economico in confronto a questo primo mondo che ci tocca vivere, però non è così sul piano culturale, dove abbiamo trovato che in molti aspetti la nostra mentalità è più aperta, più capace di evoluzione rispetto a quella che riscontro nella società italiana; come se il peso della storia che porta sulle sue spalle la costringa a camminare piano, perché strada facendo, non cada qualche tradizione di troppo.
Devo chiarire che abbiamo anche capito che questo fenomeno di rallentamento nell’evoluzione socio-culturale è specialmente marcato nella zona d’Italia in cui ci siamo stabiliti e cioè quella centrale che, come tale, gode di tutti i progressi tecnologici, dei comfort del nord del Paese, mentre conserva la mentalità tradizionalista e quasi medievale del centro- sud.
Fu precisamente questa caratteristica che sin dall’inizio creò in noi la sensazione di trovarci in una strana dimensione nella quale il passato e il futuro coesistevano confondendosi… e confondendoci. Sì, perché conferivamo a persone che avevano accesso a certi livelli tecnologici e persino scientifici, livelli corrispondenti di preparazione, informazione e cultura che non sempre possedevano”.
5) la cultura: punto nevralgico dell’immigrazione argentina
“Ed è qui, menzionando la cultura, che tocco, credo, il punto nevralgico della nostra immigrazione, ciò che ci crea le contraddizioni più profonde nel processo di inserimento nella nuova società.
Sì, perché è nel faccia a faccia con questa struttura sociale ed economica di primo mondo con tutti i suoi progressi tecnologici, scientifici ed economici, che ho scoperto che siamo dotati di caratteristiche che qui in Italia si sono perse. Noi conserviamo intatto il nostro senso di auto-conservazione, perché la nostra realtà politica, sociale ed economico lo esige. Non si tratta soltanto di scappare ai pericoli fisici, ma anche di una capacità molto sviluppata di rovesciare circostanze avverse e trarne qualche profitto. Questo significa non perdersi in un bicchiere d’acqua; questo significa anche non aver bisogno di un’enorme quantità di attrezzi indispensabili per la vita moderna, senza i quali le società ultra sviluppate sarebbero perse. Inoltre, è molto sviluppato in noi un altro istinto, quello della libertà, di non farci sottomettere, di non accettare signori né padroni, e questo ci procura seri conflitti con una realtà che ha le sue radici in un passato feudale che ha lasciato profondissime tracce nell’idiosincrasia popolare. E sorge quindi la logica domanda: com’è possibile che con caratteristiche simili il popolo argentino abbia trascorso gran parte della sua storia sottomesso alle dittature militari? La risposta è complessa, ma credo che una delle chiavi è, come ho già scritto, che dette caratteristiche si sono mantenute sempre su un piano individuale: interessi esterni a questo popolo hanno impedito che entrassero a far parte della coscienza collettiva, soffocando con tutti i mezzi, leciti e non, ogni intento di maturazione del popolo argentino, che è ancora un popolo adolescente.”
6) le contraddizioni
“Sì, perché da una parte mi piace sentirmi parte di loro, mi piacerebbe riconoscerne le tradizioni, i ricordi, il passato; dall’altra, quando mi trovo in un gruppo di argentini e usiamo i nostri codici, ricordiamo il nostro passato (non quello dei libri di storia, ma quello che si registra nella memoria collettiva) e ridiamo delle cose che ci fanno ridere… mi sento a casa.
Contraddizione è la parola più adatta per definire i nostri sentimenti; credo che tutti noi, argentini-italiani, italiani-argentini, o comunque ci chiamiamo, quel che vorremmo è poterci portare l’Argentina in Italia, cioè la nostra gente, le nostre abitudini, i nostri sabato sera e i nostri asado della domenica, in questa terra che ci piace, in questo sistema socio-politico-economico che ci permette di vivere e crescere come persone senza i sobbalzi e le angosce che erano parte della nostra vita in Argentina”.
7) medici italiani ed argentini
a differenza degli argentini, i medici del nostro Paese sono “eccessivamente formali con i propri pazienti che trattano con poca confidenza, senza fornire adeguate spiegazioni sulle malattie e le cure, salvo cambiare atteggiamento quando realizzano che stanno parlando con una del ramo” (Patricia è biochimica)
8) la scoperta dell’identità argentina
“Una delle cose più importanti che mi ha dato questa esperienza è stata la possibilità di prendere coscienza in un modo direi quasi doloroso, per quanto intenso, di un fatto che mentre ero in Argentina non ho mai analizzato … era così naturale essere argentina, che neanche me ne rendevo conto.
Sì, perché soltanto mettendomi di fronte a questa realtà diversa che si manifesta in ogni atto della vita (dalle abitudini alimentari al modo di stabilire rapporti con altri esseri umani), sono riuscita a prendere coscienza del fatto che anche noi abbiamo una identità, con caratteristiche proprie e con cultura propria”
Venimmo tutti noi
con la segreta speranza
(a volte così segreta
che nemmeno noi stessi la conoscevamo)
di trovare qui,
tra mare e montagne,
quel passato nostro
anteriore a noi,
storie dei vecchi
assorbite in un processo
quasi osmotico.
Venimmo tutti noi,
sperando, senza saperlo,
di trovare, qui,
tra passato e futuro, la nostra identità.
Insomma
la trovammo,
scoprimmo, qui,
tra dialetti e consumismo
che siamo argentini.
9) il diritto di critica
“Tante volte, soprattutto all’inizio della mia residenza in Italia, mi sono chiesta, come tanti altri immigrati, se avevo il diritto di opinare, criticare, contestare il tessuto politico, sociale ed economico italiano.
È inevitabile quell’idea o sensazione di essere in casa altrui, e perciò bisogna stare zitti.
Ebbene, ho imparato che non è così, che non bisogna stare zitti, e che non sono in casa altrui, giacché non vivo della carità della gente; sì, è vero che siamo nati in un altro posto, ma qui lavoriamo, sognamo, soffriamo, mangiamo, paghiamo le tasse e facciamo l’amore, e tutto ciò ci dà il diritto di pensare ed opinare in libertà.
Se non fosse così, ci troveremmo di fronte ad una dittatura infinitamente più sofisticata di quelle nostre dittature del terzo mondo, finanziate e sostenute dal primo mondo”.
10) la nostalgia
Patricia la provò in due occasioni diverse: in Italia, leggendo su un muro una frase d’amore in spagnolo.
“Non posso spiegare la sensazione che mi invase, in quel momento seppi cos’era la nostalgia. Fu come aver volato in una frazione di secondo nella mia città, a Rosario, con i suoi muri pieni di frasi, disegni, dichiarazioni d’amore”
A Rosario, due anni dopo, allorché sentì due persone chiacchierare in italiano e… eccola!… la nostalgia in senso opposto.
“Fu allora che capii che chi emigra rimane indelebilmente segnato da quel sentimento dolce e doloroso nello stesso tempo, indipendentemente da dove ci si trovi”.
Non ce ne siamo andati per sempre,
nessuno se ne va per sempre,
siamo un po’
nel sole di mezzogiorno,
nella corrente del fiume,
nelle strade ardenti dell’estate,
nelle notti tristi dell’autunno.
Siamo rimasti un po’ nell’aria
e un po’ nella terra,
nel soffio del vento
e nel caldo della siesta.
Non ce ne siamo andati del tutto,
un po’ siamo rimasti
in ognuno di coloro che abbiamo lasciato,
un po’ siamo rimasti
nella voglia di tornare
che a volte ci passa addosso,
ci travolge inondandoci di ieri,
per poi andarsene
lasciandoci esausti,
senza energie,
a forza di ricordare.
Non ce ne siamo andati del tutto,
nessuno se ne va del tutto,
lo so perché a volte torno
in un profumo
in un suono
in un colore
o in un sogno che poi dimentico.
Paola Cecchini