Hermann Hesse – modernismo e spiritualità decadente: frantumazione del sé e dissidio interiore
Hermann Hesse, nato nel Wurttemberg, in Germania, nel 1877, fu scrittore dalla spiritualità inquieta, dominata da insanabili conflitti che non cessarono nell'arco dell'intera esistenza.
La sua è difatti una ricerca costante di equilibrio che lo indusse a una perenne analisi di se stesso e del mondo, nel tentativo di risolvere le antinomie che lo travagliavano.
Pur risentendo del mutevole panorama culturale della seconda metà del secolo, in cui naturalismo, simbolismo, modernismo, si alternarono intramandosi nella visione decadente, non fu tuttavia legato ad alcuna scuola o movimento, e la sua opera si affermò solo grazie all’originalità degli elementi creativi in essa presenti.
È da dire peraltro che la sua natura problematica, i suoi insanabili conflitti, la sua singolarità, avevano pure il loro germe nella variegata cultura acquisita all’interno della dimensione familiare, oltre che in quell’acuita sensibilità dello spirito che contraddistingue le epoche di decadenza.
Il suo fu infatti un sapere ricco di portati diversi, di influenze varie e cosmopolite nelle quali si mescolavano elementi disparati: una conoscenza della Bibbia in lettura pietista, lo studio della filosofia – di alcuni pensatori in particolare – nonché la conoscenza dei costumi e della cultura dell’India.
Le sue opere – dalle prime fino alle più conosciute e importanti – presentano tutte una fisionomia e un carattere peculiare, modellato sul calco della sua anima.
Innegabile, nei suoi romanzi, la struttura del bildungsroman, in cui i protagonisti ripercorrono il senso di una ricerca che fu della sua stessa vita.
Fin dalla prima giovinezza, questa ci appare attraversata da tentativi e percorsi svariati di ricerca, e da un malessere che lo accompagnerà senza tregua, impedendo, per lungo tempo, il costituirsi in lui di un asse unitario per un assetto più stabile della sua esistenza.
Uno stato di perenne crisi che lo condurrà infine, attraverso questo cercare, alla scoperta della propria vocazione letteraria.
Già con Peter Camenzind, che è tra i suoi primi romanzi, siamo proiettati in questa dimensione di errabonda ricerca. Il protagonista è infatti un personaggio suchende, – come Hesse ebbe a dire di Siddharta – un “cercatore”, definizione appropriata per l’ampia galleria dei personaggi consimili delle sue opere.
Nel caso specifico, Camenzind è un sognatore e un vagabondo per passione che ama il contatto diretto e vitale con la natura e da essa si lascia totalmente rapire, disdegnando le consuetudini mondane e le frequentazioni sociali. Personaggio chiave, pertanto, nella visione complessiva dell’opera dello scrittore tedesco.
Nell’idealizzazione di tale figura si concentra in realtà la forza emblematica di questa sua scissione interiore. Un conflitto che risente ancora dell’ideologia e della morale borghese ottocentesca, ma nel suo aprirsi alle inquietudini più drammatiche del secolo appena iniziato.
Da diversi punti di vista, perciò Camenzind è un personaggio romantico, costruito secondo il gusto dell’autobiografismo ottocentesco – di cui abbiamo illustri esempi in Goethe e Novalis.
Dalle sue esperienze di vita ricaverà la lezione sul vero significato dell’esistere, che sarà affidato a una spiritualità fortemente intrisa di amore per la natura e per l’essere di tutte le cose.
Tale prototipo si ripropone, come dicevamo, più volte nell’opera di Hesse, come avviene ad esempio nella figura di Boccadoro, protagonista, insieme a Narciso di un altro romanzo di formazione quale è appunto Narciso e Boccadoro. Ma lo ritroveremo ancora in Siddharta, e parzialmente ne Il lupo della steppa, ne Il gioco delle perle di vetro, e in altri romanzi minori.
Ripercepiamo in essi le stesse antitesi e la stessa ricerca che, da uno stadio vago iniziale si erano andate delineando e precisando, facendosi più marcate, divenendo quelle tra spirito e natura, tra istintualità del vivere e vita contemplativa sublimata da saggezza e sapienza. Antitesi che l’autore cerca in ogni modo di conciliare, ma che sembrano avere divaricazioni incolmabili come pure è – per una certa affinità di sentire – nei romanzi del contemporaneo Thomas Mann.
La medesima ricerca, ancor più volutamente idealizzata e resa emblematica, ritroviamo ne Il Pellegrinaggio in Oriente, dove la vicenda è immersa in un’atmosfera onirica di chiara derivazione simbolista ed esotica. Un romanzo-saggio che si veste di favola; vi dominano atmosfere rarefatte e dense di mistero, dove personaggi disparati, tra cui lo stesso autore, partecipano a un singolare viaggio: un percorso non reale, ma in dimensione ideale che ha il senso di una perenne ricerca cui gli uomini sono destinati, e che costituisce in ultimo il senso della vita intera.
Altro saggio in forma di romanzo è il già citato Narciso e Boccadoro, testo prezioso nella sua tessitura, con una storia che si colloca sullo sfondo di una Germania rinascimentale.
Narra la vicenda di due amici, entrambi novizi in un monastero; giovani dall’indole diversa, che si confrontano senza avversarsi, nella loro volontà di realizzazione della propria essenza, imperniata su opposte visioni della realtà.
Il tema ci riporta, ancora una volta, al contrasto che vive nell’animo dell’autore tra la vita dello spirito e quella dei sensi e della materia. Due tendenze che si fronteggiano e prendono corpo nella persona del puro asceta, dello studioso e del pensatore che è Narciso – e in quella del sognatore e dell’artista che è Boccadoro.
Quest’ultimo ripropone i tratti essenziali del prototipo Camenzind: anch’esso è un vagabondo – per certi versi inquieto – un cercatore, un suchende che fortemente avverte le esigenze dei sensi e il richiamo imperioso della vita, e meno l’anelito a un’esistenza contemplativa che cerca la sapienza e l’elevazione dello spirito.
Ma il contrasto non si risolve, o si risolve solo in apparenza, poiché l’uomo è nato nel mondo e per il mondo, ma con un anelito che trascende la dimensione terrena.
Il che vale a dire che le due tendenze sono presenza costante nell’uomo, e se cerchiamo di farne prevalere una, dobbiamo sacrificare con dolore l’altra, o parte di essa.
Così, il pensatore cerca di avvicinarsi Dio, scacciando il mondo da sé; e l’artista, l’innamorato della vita e del mondo, cerca Dio vivendo intensamente nella dimensione concreta, e prolungando la creazione divina sulla terra.
Così, Narciso – l’asceta erudito e pensoso – farà il suo viaggio nella vita. E Boccadoro – di poco più giovane di lui – incarnerà la figura dell’adolescente inquieto e ribelle, destinato ad evadere la disciplina del chiostro, per seguire l’altra via, l’altro viaggio, in un lungo andare erratico, sulle tracce di impulsi e suggestioni vitali ed erotiche.
Finirà in carcere alla fine, rischiando la vita, ma verrà salvato da Narciso, giunto nel frattempo al culmine della gerarchia monastica.
Un romanzo emblematico dunque: Narciso, il puro, l’abate dalla austera spiritualità, che ha attraversato il rigore della vita claustrale, colma di sacrifici e rinunce, e il vagabondo sensuale che ha conosciuto anche le più terribili esperienze di vita – tra cui la peste, e la morte come parte di essa, di quella Gran-Madre che ci ha generato – vivranno il loro viaggio e la loro saggezza ritrovata, l’uno come “pura spiritualità”, l’altro come “pienezza dell’esistenza”, completandosi e ritrovandosi in una realtà che, seppure non risolve le antitesi, almeno idealmente le compone e le contempera.
Anche il romanzo che diede la maggiore fama ad Hesse, Siddharta – pubblicato nel 1922, e ispirato alla vita e alla figura del Buddha, è in realtà, ancora una volta, la riproposizione dell’autobiografismo presente in gran parte delle sue opere, cioè tutte le volte che compare la figura del suchende, del cercatore, che viene a rappresentare la natura, i problemi, e l’interiore conflittualità che risiede nell’animo dell’autore.
La storia, semplice nel linguaggio e densa di accenti lirici, e tuttavia intramata di pensiero, è quella di un giovane indiano – Siddharta appunto – il quale, insieme all’amico Govinda, intraprende un viaggio alla ricerca del proprio sé e del senso della vita. Un percorso che si ispira, come dicevamo, a quello del vero Buddha, e che muove da una ricerca, costituzionalmente umana, che è quella della felicità.
Viaggio reale ed interiore, dunque, di anima e corpo, concreto e ideale al tempo stesso. Racconto ascrivibile, anch’esso, alla categoria del bildungsroman, da Hesse in vario modo rivisitata.
Nel romanzo confluiscono dottrine e filosofie di autori e culture diverse, tra cui l’Induismo, la filosofia imbevuta di cultura orientale, di Schopenhauer, e quella di Bergson e di Nietzsche.
L’epilogo è costituito dalla glorificazione della figura di Siddharta, che attraverso le esperienze del lungo peregrinare e del perseverare in questa ricerca, raggiunge infine “la liberazione”dalla condizione terrena – dalla catena del Samsara – e conquista il Nirvana, che gli permette di ascendere e congiungersi all’Atman, l’anima infinita e universale dell’intera realtà.
Nel rincontro, in tarda età, con Govinda – che da gran tempo si era da lui separato – egli viene appunto salutato e glorificato come nuovo Buddha.
Anche Il lupo della steppa, pubblicato nel 1927, è denso di riferimenti autobiografici che riflettono qui la profonda crisi spirituale vissuta in quegli anni – più acuta del solito – e legata anche al rifiuto della mentalità borghese che sente ipocrita e gretta.
È la storia di un turbamento profondo, di un’acuta depressione che lacera la sua psiche. Un travaglio interiore mirabilmente espresso attraverso la psicologia del protagonista, Harry Haller, che possiede all’incirca la medesima età, e il cui nome mantiene le stesse iniziali di quello dello scrittore.
È riconducibile, verosimilmente, a quel periodo ( 1919) in cui – in seguito ad acuta e persistente sofferenza psicologica – si sottopose a psicanalisi con Carl Jung, ricavandone qualche beneficio, e divenendo in seguito amico dell’illustre analista.
Nel romanzo è all’opera la scissione più completa del suo sé: la sua propensione all’arte – soprattutto poesia e musica – il suo pensiero che abbraccia, oltre ai filosofi già citati, la visione nietzschiana, e una spiritualità inquieta e perennemente inappagata che lo fanno ondeggiare tra i poli opposti di una religiosità quasi ascetica e le concessioni che egli fa al “lupo” che è in lui, sulla strada dell’istinto e dei sensi che deragliano verso la perdizione.
Una conflittualità, non puramente ideologica dunque, ma che include tutte le antitesi del vivere e pone il suo drammatico e nullificante aut-aut privo di speranza: o assecondare il mondo e la mentalità borghese – che vive di corruzione e sopraffazione, e secondo uno stile di vita che ha un portato di insignificanza, noia e nullificazione – o scegliere l’altra via, disperata e solitaria, che contempla il suicidio e conduce ad altro nulla e ad altra perdizione.
Rispetto ad altre opere, questa appare assai più complessa. Vi si coglie la tensione e lo spasimo di un’anima che vive nell’oppressione della tenebra. In alcuni punti, tuttavia, la struttura appare complicata da elementi che la rendono, per certi versi, un po’ artificiosa.
Il gioco delle perle di vetro, ultima opera dello scrittore, pubblicata nel 1943, è la rappresentazione di un’utopia, e prende il titolo da un gioco intellettualistico e sofisticato, praticato da una comunità ideale, una sorta di cenobio di intellettuali intenti tutti a coltivare in modo esclusivo la vita dello spirito.
Tale comunità, inflessibile ed eterea, è collocata nella regione immaginaria di Castalia, in un imprecisato, quasi leggendario futuro.
Su tali premesse l’autore costruisce il suo romanzo-saggio, modellando la sua utopia sull’atmosfera rarefatta e tuttavia rigorosa di quella comunità, secondo quanto è nella grande tradizione che va da Platone ai medievali e all’Umanesimo europeo – non considerando, per il loro carattere pratico e operativo, i tempi a noi più prossimi delle utopie socialiste del XIX secolo.
Le vicende sono imperniate sulla vita di Josef Knecht, un orfano accolto nel gruppo degli intellettuali di Castalia per le doti eccezionali che gli permetteranno di eccellere in varie occasioni, tanto che a lui verranno affidati, in seguito, missioni diplomatiche di altissimo livello per l’esigua comunità di Castalia. Diverrà anche Magister ludi, una onorificienza grande, in relazione al “gioco della perle di vetro” che è un vanto dell’intera comunità.
Ma il richiamo della vita concreta e reale, si farà sentire nell’uomo adulto, tanto che per essa abbandonerà il destino che aveva tenacemente costruito all’interno di quella eterea e inflessibile comunità che viveva isolata dal resto del mondo.
E con questo, torniamo, ancora una volta, al contrasto tra Vita e Spirito, tra idealità pura e richiamo dei sensi, come era stato nelle altre opere.
Fuori da quella comunità, Josef Knecht incontrerà solo la morte, sopraggiunta inaspettatamente durante un gioco o gara di nuoto con un suo allievo.
Non superato appare pertanto, in questo quadro, quanto impediva all’autore di trovare equilibrio tra le antinomie cardinali del suo sé: vita spirituale e mondanità, sensualità dell’eros e vita contemplativa ed ascetica, delle quali avvertiva al contempo il profondo richiamo.
La brusca e drammatica fine del protagonista che ha finalmente operato una scelta radicale, pone infatti in crisi lo stesso aut-aut, riportandoci alla visione duale e alla insanabile tensione tra i due estremi di essa.
Spirito travagliato, dunque, quello di Herman Hesse, in cui avvertiamo lo stigma della Decadenza novecentesca e dei conflitti che si aprono sui cardini del relativismo e soggettivismo della cultura modernista.
Non per nulla i movimenti giovanili della Beat generation e quelli fortemente protestatari del ’68, troveranno nei temi e nella scrittura di Hesse, analogie di sentire e di visioni, e problemi e aneliti che erano i propri. E diverranno pertanto cultori e seguaci di lui e della sua opera.
Rossella Cerniglia