La legge secondo di Henri Bergson
Di Apostolos apostolou
Henri Bergson nasce a a Parigi nel (1859 -1941) da una famiglia ebraica. Conduce i suoi studi al Liceo Condorcet, poi alla Scuola Normale Superiore ed ottiene la licenza in lettere e matematica. Nel 1907, l’incarico di Maître des Conférences presso la Scuola Normale Superiore e diviene due anni dopo insegnante di Filosofia al Collège de France. La filosofia di Henri Bergson incise profondamente nella cultura del Novecento: elementi del suo pensiero li ritroviamo nella filosofia di Michel Serres, Emmanuel Levinas, Gilles Deleuze, nella storiografia di Fernand Braudel, nella letteratura di Marcel Proust, nella epistemologia di Jacques Monod. Quasi misconosciuto agli inizi della sua carriera accademica Bergson divenne alla fine così popolare da essere quasi identificato con il filosofo ufficiale del pensiero francese.
Egli fu uno dei pochi filosofi, insieme a Bertrand Russel , Jean-Paul Sartre e Elias Canetti , a ricevere il premio Nobel ( 1927 ).
Henri Bergon è certamente il più importante maestro dell’intuizionismo. Magnifico scrittore ed oratore esercitò. Con le sue numerose opere, un’influenza molto grande e, per molti aspetti, faconda sulla cultura della “belle époque”. Secondo Bergson, la ragione tende a concettualizzare ogni manifestazione della vita, staccandola dall’unità produttiva in cui si inserisce. Per questo finisce con il produrre una serie di concetti astratti che non riescono ad esprimere adeguatamente il proprio oggetti e lasciano sfuggire proprio il flusso della vita “Élan vital’’.
Questa critica della conoscenza concettuale viene approfondita da Bergson nei suoi scritti metodologici e soprattutto nella «La pensée et le mouvant». Ma nulla vale ad esprimerla come la riflessione sul famosissimo sofisma di Zenone che egli ci propone. Come si ricorderà, Zenone aveva sostenuto che il piè veloce Achille non avrebbe mai potuto raggiungere la tartaruga perché lo spazio tra Achille e quella tartaruga é divisibile all’ infinito. Ora Bergson ci spiega – e la sua argomentazione sembra davvero ineccepibile – che questo paradosso deriva da una “spazializzazione” del tempo, nel senso che il tempo necessario al piè veloce Achille per raggiungere la tartaruga viene sezionato, come lo spazio, in diversi fragmenti, divisibili, per l’ appunto all’ infinito.
È proprio questa, secondo Bergson, l’ operazione che la ragione, attraverso i suoi concetti compie sulla realtà. Essa non conosce né può conoscere la “durata”, vale a dire il flusso creatore che scandisce il ritmo della vita e che è la vera essenza del tempo. Per Bergson l’idea di tempo ‘scientifico’, omogeneo e reversibile, quantitativo e calcolabile, che si limita a riprodurre l’idea dello spazio geometrico, deve essere rifiutata poiché totalmente inadeguata in quanto ciò che viene misurato non e’ l’intervallo di tempo in sι, ma solo una porzione di spazio. Questo porta al fatto che “se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte piω rapidamente non ci sarebbe nulla da modificare nelle nostre formule, nι nei numeri che vi facciamo entrare”. (come scrive Fabrizio Rechichi )
Nel suo moltissimo libro su L’Évolution créatrice il filosofo francese ripercorre, ma da un punto di vista rovesciato e cioè dall’interno del processo creatore della vita, il cammino percorso dall’evoluzionismo degli scienziati del suo tempo, ed è questa, forse, l’opera più sistematica – e perciò meno profonda – del filosofo francese che, attraverso di essa, paga il suo tributo allo scientismo dell’epoca. La vita naturale secondo Bergson cresce “come un fascio di steli” sviluppandosi in serie divergenti e possiamo dire come fuoco d’ “artificio”, in varie direzioni, ma anche come un fuoco d; artificio “esplode” in varie direzioni biforcandosi. Quando, nel 1934 usci la grande opera di Bergson Les Deux Sources de la Morale et de la Religion, si vide quanto più profonda ed originale fosse la prospettiva etica di Bergson, anche se essa segna indubbiamente notevoli cambiamenti rispetto alle opere più giovanili e l’ affiorare di una ricerca dall’ assoluto che doveva portarlo a posizioni molto vicine a quelle del cristianesimo.
Certo non mancano in quest’opera utilizzazione perlato sempre trasfigurate dalla magia delle sue immagini e da una possente capacità di sintesi di teorie sociologiche e psicologiche.
Henri Bergson, tenta di cogliere dall’interno ed unitariamente i problemi dell’ etica prospettandone la genesi nel processo attraverso il quale la vita sociale si eleva dalla meccanica del gruppo alla forza creatrice della coscienza. In questo processo le idee morali si costituiscono secondo Bergson, attraverso una continua tensione tra il “chiuso” e lo “aperto”. Il “chiuso” che esprime la forza eteronomia del gruppo sull’individuo e si risolve, attraverso l’abitudine e la memoria e l’educazione nel senso dell’obbligazione.
Lo “aperto” che esprime invece, lo sforzo innovatore delle grandi individualità che attraverso la forza del loro esempio imprimono una nuova forza creatrice (possiamo vedere personaggi con l’ “aperto” sforzo come era, Cristo, Budda, Maometto) alle norme etiche determinando irreversibili progressi nella coscienza morale nella stessa vita sociale. In questo pensiero sostiene anche la teoria di società aperta, di Karl Popper. E come credeva Bergson con l’evento della scienza e dell’industrialismo moderni preparati dalla grande rivoluzione spirituale del cristianesimo si configura per l’uomo la possibilità di una società “aperta”e “dinamica” e anche democratica e non violenta.
La legge secondo Bergson appartiene alla pressione del gruppo sull’ individuo e quindi al “chiuso” dell’eteronomia normatività. Però esiste una normatività che non è eteronomia? Che cosa è la normatività? Alcuni principi morali sono auto-evidenti e la loro accettazione giustificata dipende dal semplice fatto di comprendere in modo appropriato il loro significato. Cosi i principi morali, dunque, possiedono un valore di verità sulla base della loro capacità rappresentativa di fatti morali indipendenti, intesi come verità aperta. La verità aperta esprime un “obbligo morale” costituisce sempre una ragione normativa per agire un obbligo morale è essenzialmente e che, pertanto, una valutazione morale giusta consiste nell’attenzione e nella responsività adeguate dell’agente alle ragioni morali di una certa situazione.
L’idea della giustizia, invece all’aspirazione del singolo individuo ad andare oltre quel limite e quindi al progressivo emergere di un’etica aperta. Concludo, possiamo dire che Bergson era il teorico o l’ intellettuale che ha dato una spiegazione dell’origine della portata normativa dei “fatti morali”.
Apostolos Apostolou . Scrittore e professore di filosofia.