La “mezza vittoria” del G20 è il simbolo di una politica che difetta di coraggio
Il summit del G20 di Roma si è appena concluso e, come di consueto, appare obbligatorio tirarne le somme per comprendere fino in fondo se quanto deciso dai politici, riportato con toni trionfalistici da parte dei giornali, sia un passo in avanti rispetto al passato o l’ennesima dichiarazione d’intenti inutile ai fini pratici.
Innanzitutto c’è da dire che l’incontro è partito in salita a causa dell’assenza di alcuni leader molto importanti come Putin, Xi Jinping e Bin Salman, ufficialmente assenti per motivi legati alla pandemia ma la cui mancata presenza ha pesato molto sul valore politico da assegnare alla riunione. Nello specifico, seppur i tre leader assenti abbiano seguito alcuni passaggi della riunione in remoto, è pur vero che il loro apporto è stato minimo se non nella misura di chiarire quali siano le linee di faglia esistenti tra i grandi Paesi. I ministri degli Esteri presenti in sostituzione dei propri leader hanno preferito mantenersi sul vago, attaccando gli altri presenti più su problemi di ordine geopolitico che su quelli di ordine ambientale. Inoltre, Cina e Russia hanno assestato un duro colpo al G20 chiedendo una riunione a parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, unico organo “cercare una risposta efficace alle attuali sfide e minacce globali” con buona pace dell’appello al multilateralismo di Mario Draghi.
L’edizione del 2020 ospitata dal Belpaese e presieduta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi è il frutto di un lavoro tecnico e politico durato un anno e al cui vertice si posizione l’agenda elaborata dalla presidenza italiana nota come 3P (People, Planet e Prosperity).
A livello di risultati, il vertice si è chiuso con un limitato accordo sul clima che, a ridosso della Cop26 in scena a Glasgow proprio in questi giorni, rappresenta un viatico tutt’altro che eccezionale. L’opinione pubblica ci si attendeva un atto di coraggio in grado di rappresentare un ottimo punto di partenza in occasione dell’incontro Onu in Scozia. Così non è stato e i leader del G20 hanno adottato l’impegno per cercare di contenere il riscaldamento globale entro la fine del secolo di 1,5 gradi. Inoltre è stata fatta la promessa di raggiungere la carbon neutrality entro la metà del secolo, senza però menzionare esplicitamente l’anno. Si tratta di una scelta che è stata molto criticata da coloro che si attendevano un chiaro atto di coraggio. La maggiore opposizione è venuta soprattutto da Russia, Cina, India e Arabia Saudita con cui non si è riusciti a concordare una data. L’Occidente era fermo sul 2050, mentre loro preferivano spostare l’impegno di almeno dieci anni. Alla fine il compromesso era inevitabile.
Non c’è dubbio che il solo affrontare così da vicino un argomento così spinoso sia comunque un risultato di un certo rilievo e i passi in avanti si notano, anche rispetto al solo Accordo di Parigi di sei anni fa. Ma i passi, seppur in avanti, sono stati “brevi e poco distesi” e non come ci si poteva attendere dalla classe dirigente chiamata a combattere l’emergenza climatica. Anzi, alcuni hanno notato come i risultati ottenuti siano tutt’altro che lungimiranti e il frutto di accordi politici compiuti da individui ben consapevoli di essere poco più di un mero ricordo tra mezzo secolo.
A Roma è prevalsa la realpolitik. In molti hanno commentato l’evento ricordando che la sfida climatica è troppo complessa per essere decisa all’interno di queste conferenze. Il ministro dell’Ambiente tedesco, ad esempio, è stato lapidario nel sottolineare che un eccesso di ambizione potrebbe deludere tutti. E sull’incontro scozzese ha poi detto che “Glasgow non sarà Parigi”, facendo riferimento al successo della conferenza del 2015 e agli obiettivi “troppo ambiziosi” ivi fissati.
L’altro risultato notevole è stato quello di prendere l’impegno di accelerare la distribuzione dei vaccini nei Paesi poveri. Infatti, mentre negli stati industrializzati si pensa alla terza dose, in altri non ci sono ancora le prime. Si tratta di una questione davvero delicata, a metà strada tra la necessità di vaccinare tutti per porre fine al disastro pandemico e l’opportunità per le case farmaceutiche, che preferiscono vendere soltanto a chi è in grado di pagare. In un contesto di questo tipo, la capacità degli stati di distribuire gratuitamente il vaccino a chi non può permetterselo è fondamentale. D’altronde, pur vaccinando il 100% della popolazione dei Paesi industrializzati senza pensare a quella dei Paesi poveri, il problema virus non sarà risolto e la Covid continuerà a circolare mutando in continuazione. Forse è questa la sfida più importante nel breve periodo: riuscire a creare un sistema in grado di uniformare le vaccinazioni.
Infine c’è l’adozione della global minimum tax del 15% presentata come un grande successo ma che, in realtà, per come è stata strutturata avrà effetti davvero modesti e andrà a favore dei Paesi più abbienti. Alcuni eminenti economisti l’hanno definita “ridicola”, dato che si è partito da un’imposta ambiziosa del 20-25% per poi arrivare al 15%, molto vicino a quanto viene chiesto in Irlanda, non a caso definito come il “paradiso delle multinazionali”. Certamente, rispetto a un passato dove le multinazionali non erano tassate il passo in avanti c’è stato, ma in realtà il successo è solo apparente. L’opera è completa se si specifica che a causa di questa tassa, gli stati si sono impegnati a rimuovere ogni tipo di webtax. Paradossalmente la minimum tax potrà alleggerire il carico fiscale per alcuni colossi.
Tutto sommato, il bilancio è positivo se si tiene in considerazione la difficile situazione internazionale in cui il G20 si è svolto. Restano poche e marginali le indicazioni sui temi ambientali in occasione della Cop26, mentre sono evidenti le contrapposizioni geopolitiche emerse tra gli Stati Uniti e la Cina. Ciò non toglie che l’unica speranza è che le controversie possano messere da parte per canalizzare le forze nell’obiettivo unico della lotta al cambiamento climatico. Affrontare questo argomento richiede coraggio, lo stesso che è mancato nel vertice e lo stesso che questa politica fatica a trovare in nome di interessi personalistici e di breve periodo.