L’idea del “campo largo” certifica le debolezze di una sinistra autolesionista
La sinistra italiana ha sempre avuto due grandissimi problemi che le hanno precluso di fare quel fatidico passo in avanti per elaborare un progetto a lungo termine che le consentisse di governare in modo duraturo. Si tratta di due criticità che, nel corso degli anni, si sono fatte sempre più insistenti e che hanno bruciato i sogni di gloria e di rinnovamento di numerosi segretari passati per il partito maggiore del polo. La nomea di una “sinistra autolesionista” non è un caso e, in gran parte, deriva proprio da questi due problemi.
Il primo è sicuramente la debolezza intrinseca delle sue coalizioni. Tenute insieme “con lo sputo” – come si dice in gergo – non hanno mai saputo elaborare un progetto univoco. Vuoi per l’eccessiva ambizione – o incapacità – dei singolo leader o per la debolezza intrinseca delle proposte stesse, la sinistra ha sempre sofferto sotto questo aspetto. Molto probabilmente una delle cause può essere rintracciata nella caratteristica peculiare di una coalizione duratura: la ricerca del leader. La sinistra, almeno quella italiana, è profondamente anti-leaderistica, per quanto voglia far credere il contrario. Raramente (forse un paio di volte nella sua storia) la sinistra italiana si è identificata a pieno con il suo leader. L’ultima volta è successo con Berlinguer, ma già allora il Partito Comunista non era più quello degli esordi. Oggi questi problemi si condensano all’interno dello stesso PD che tra correnti e fazioni riesce a malapena a presentarsi unito alle elezioni.
Paradossalmente il secondo problema è quello dell’egemonia del partito maggiore, di quel “campo largo” che per forza di cose deve esistere nella mente e nelle intenzioni del leader designato dal partito più grande Il campo largo è proprio un tarlo storico della sinistra italiana Negli ultimi giorni, Enrico Letta sta spingendo per portare tutte le forze “non sovraniste” o vicine al centrosinistra all’interno dell’alveo del PD. Ancor prima delle idee viene l’unità. Ma se alla base di questa unità non c’è un’idea di Paese condivisa come fanno le forze politiche di centrosinistra a restare insieme?
Unità per fare cosa? Per combattere il centrodestra. Una motivazione che non farà altro che compattare di più la coalizione avversaria e indebolire la causa di una sinistra che non riesce ad elaborare un’idea vera e alternativa. Una situazione che sfocia in un de ja vu che sarebbe dovuto servire da lezione al Partito Democratico e che, invece, continua a rincorrere gli avversari anziché le idee. Accadde una cosa molto simile anni fa con Silvio Berlusconi e il fenomeno dell’’anti-berlusconismo che imperava all’interno delle campagne elettorali promosse dai democratici. Il risultato fu che alle elezioni del 2008, quelle che si tennero dopo la caduta del governo Prodi, la coalizione capeggiata dal Cavaliere ottenne quasi il 47%, circa dieci punti in più rispetto a quella di centrosinistra. Ma si possono fare esempi più recenti. Anche durante la campagna elettorale per il voto del 2013, il PD fece lo stesso errore, affidandosi ai guai giudiziari di Berlusconi anziché avanzare proposte convincenti.
Partire da un programma comune che ricalchi i valori per cui il centrosinistra dovrebbe battersi può essere l’unico punto di partenza per costruire (o riscostruire) non solo un partito ma un intero polo politico. Non ci sono soluzioni alternative se non quella di “tornare a fare la sinistra”. E l’unico modo possibile per riuscirci è “essere di sinistra”.
Riempire il centrosinistra di partitini che, in alcuni casi non hanno nulla in comune, può essere una soluzione a breve termine in vista di probabili (o improbabili) elezioni anticipate ma, e su questo bisogna essere chiari, prima o poi i nodi e le differenze programmatiche verranno al pettine. Nel lungo periodo, invece, una soluzione di questo tipo non farà altro che logorare sia il partito maggiore, fiaccato dai fallimenti e da leadership azzoppate, sia l’immagine del centrosinistra, ormai visto più come un “groviglio di serpi” che come luogo di sintesi dei progressisti italiani.
Donatello D’Andrea