Marchigiani nelle fazende di canna da zucchero (1)
Intervistare molte persone, e tutte insieme, è un’esperienza memorabile, anche se molto difficoltosa. E’ impossibile usare un registratore: le voci si sovrappongono molte volte, tutti parlano sulla scia dei ricordi. L’uno corregge l’altro. Chi risponde confusamente, è aiutato dai ricordi altrui.
Sono passati oltre cinquant’anni da quando hanno lasciato le Marche per il Brasile ma pochi nella regione conoscono la loro storia.
I capofamiglia di allora non ci sono più, restano alcune vedove: Isabella Nicolai (ved. Gaetani) e Domenica Gaetani (ved. Collina). I ricordi non sono tutti lieti, anzi, ma si ride molto. Talvolta sembrano ragazzini, ed alcuni di loro sono un po’ emozionati.
Ricostruiscono questa storia Pia, Mario e Alberto Sciamanna (cugini tra loro); Isabella Nicolai ed i figli Renato e Teresa Gaetani, unitamente a sua nipote Elena Gaetani; Gino De Angelis, Giovanna Bruni, Giovan Battista Nobilioni; Violante e Ilario Mariucci (fratelli tra loro) che da questo momento in poi non saranno più menzionati.
L’intervista è stata realizzata a Piracicaba il 10 novembre 2006.
Quante famiglie partirono per il Brasile dalle Marche?
Una ventina.
Di chi si trattava esattamente?
-L’elenco è lungo: le famiglie Sciamanna, De Angelis, Nobilioni, Castaldi, Gaetani, Collina, Bruni, Pavoni, Fava, Di Benedetto, Marozzi, Fioravanti, Consorti, Massi, Odorisi, Mariucci, Iobbi, Vallorani, Massi, Pizzingrilli
Erano famiglie numerose?
-Altroché! Erano famiglie patriarcali, molto comuni in Italia a quel tempo. Tanti i figli: la famiglia di Emidio Iobbi, ad esempio, ne aveva sedici e quindici di loro sono venuti in Brasile.
Da dove provenivano?
-Dalla provincia di Ascoli Piceno; quasi tutte provenivano da Maltignano e Folignano
Erano famiglie imparentate tra loro ?
-Per gran parte. Lo erano le famiglie Nobilioni e Sciamanna, Gaetani e Collina, Gaetani e Pavoni, Di Benedetto e Fava; Marozzi e Consorti, Massi e De Angelis; Pizzingrilli e Massi. Altre lo sono diventate in seguito, come le famiglie Mariucci e De Angeli, De Angelis e Sciamanna. Marietta, la moglie di Emidio Iobbi era la madrina di battesimo di Violante Mariucci.
Che lavoro facevano?
-Di norma i capofamiglia erano mezzadri, ma non tutti. Mio nonno Albino, ad esempio, era fabbro e provvedeva alla manutenzione degli utensili di lavoro di tutte le botteghe e le officine della zona. Pietro Bruni era pompiere.
Chi prese la decisione di emigrare? C’erano dei group-leader tra voi?
-Come no! Erano Egidio De Angelis e Guido Nobilioni, entrambi di Folignano. Da loro partì tutto.
E nell’ambito di ogni famiglia? Chi prese la decisione?
-Ovviamente gli uomini. Comandavano loro. Mia madre piangeva, non ne voleva sapere. Andare in Brasile? Non sapevamo neanche dov’era! Ma si doveva restare sempre uniti.
-Si figuri che mio padre Giuseppe era sposato con quattro figli ed era indipendente, per quanto riguardava il lavoro, da mio nonno Albino. Lavorava presso l’azienda di trasporti Oxigeno di Ascoli Piceno e non voleva assolutamente partire ma dovette ubbidire. Adesso sembra impossibile una cosa del genere, ma la famiglia patriarcale aveva regole precise. Mio nonno aveva le rotelle al posto dei piedi, era uno zingaro, sempre in movimento. Era già stato in Argentina ed in Africa, da solo, poi aveva sentito parlare del Brasile e ci voleva andare a tutti i costi.
-In famiglia eravamo tutti contrari: anche mia nonna Giuseppina lo era. Piangeva, poveretta, ma mio nonno non se la filava per niente.
-Ad Ascoli Piceno la mia famiglia vendeva la verdura alla piazza centrale, vicino alla chiesa di San Francesco. Abitavamo a Ponticelli, a tre chilometri dal centro. Non ce la passavamo male. Mio padre era mezzadro ed integrava il suo guadagno commerciando in bestiame: comprava piccoli vitelli, li ingrassava e poi li vendeva. Mia nonna era stata la cuoca della corte reale. Cucinava per la corte, non per il re che aveva un cuoco personale.
Perché pensaste all’emigrazione?
-Per comprare la terra! In Italia non era possibile, non ce l’avremmo mai fatta. Certo, pensavamo di migliorare il futuro dei figli, di farli studiare, dare loro altre possibilità rispetto a quelle che avevamo avuto noi, ma la proprietà della terra era il motivo principale!
-Tutti volevano emigrare a quel tempo. Ricordo che Vittorio, mio fratello, voleva andare in Canada e così mio padre, per mantenere unita la famiglia, decise la partenza.
-Anche mio fratello Costantino aveva deciso di andare in Canada. Costantino era l’unico figlio maschio e quindi particolarmente importante per una famiglia, specialmente quella di allora. I giovani non avevano un futuro in Italia. Il fidanzato di mia sorella era già partito per l’ Australia e lei lo seguì dopo le nozze. L’America era il sogno.
Come vi preparaste alla partenza?
-La mia famiglia comprò attraverso una società di Pescara, presieduta da un certo Zazzeri, della terra nello Stato di Bahia, vicino al rio São Francisco. Era il 1949. Eravamo in tutto ventidue famiglie e otto, dieci di loro fecero come noi. C’erano i Nobilioni, i Bruni, i Gaetani, i Vallorani.
Che successe dopo questo acquisto?
-Lo Stato italiano inviò oltreoceano un tecnico per verificare la situazione e questi, tornando, disse che era tutto un bluff, che la terra acquistata non era produttiva, non valeva niente. L’avevamo pagata duecentomila lire di quel tempo.
Una truffa?
-Così si rivelò. Il presidente della società fu arrestato perché non era in grado di rimborsarci. Fu allora che il governo italiano ci disse: “Se volete ancora andare in Brasile, per voi il viaggio sarà gratuito”. Ci fecero anche un contratto di lavoro che, purtroppo, risultò nullo all’arrivo.
-Anche mio nonno Albino, che pure era un affarista nato, diede i suoi soldi a Zazzeri. Aveva venduto tutte le sue proprietà ed il ricavato era di quattro milioni circa, l’equivalente di una fabbrica di mobili. Aveva venduto anche la casa di Ascoli, ma non rivide più il suo denaro.
Perché li aveva dati a lui?
-Non poteva metterli in banca perché la partenza era imminente. Zazzeri doveva essere molto abile ed intelligente per farseli consegnare da mio nonno, perché mio nonno non lo fregava mai nessuno. Era terribile sotto questo punto di vista.
Che successe allora?
-Quando realizzò quello che era successo, voleva ammazzare Zazzeri e- dato il carattere impetuoso che aveva- credo che l’avrebbe fatto veramente. Fu allora che per scongiurare una tragedia, mia nonna e mio padre si misero di mezzo e si dichiararono pronti a partire. Un omicidio avrebbe soltanto peggiorato la situazione.
Partiste con le altre famiglie?
-No, successe un intoppo. Mio padre aveva un difetto ad una mano, la destra, per cui non poteva fare che il meccanico o l’autista. Ma in Brasile non avevano bisogno di queste figure, cercavano agricoltori.
Quindi?
-Mio nonno, come al solito, non si perse d’animo. Aveva molti conoscenti ed amici, tra cui carabinieri e sindaco, e così ce l’ha fatta. Firmò un contratto con l’azienda Morganti per un meccanico ed un autista. La soluzione di queste difficoltà posticipò la nostra partenza e così ci imbarcammo più tardi, da soli. Arrivammo a Santos il 3 ottobre 1952, tre mesi dopo gli altri.
Quanto costava la traversata?
-Circa 120-150.000 lire a famiglia. Ricordo che la famiglia di mio padre Tommaso Sciamanna e quella di suo fratello Pietro si unirono per pagare meno. Facemmo finta di essere un’unica famiglia per risparmiare. La mia famiglia era composta da mio padre, mia madre Giovanna Bollettini, io ed i miei fratelli Alberto e Emidio; la loro da mio zio Pietro, la sua seconda moglie Gioconda Volpini ed i figli Maria, Ida, Costantino, Lucia, Pia, Bice e Rita. Pagammo un unico biglietto.
Quando partiste?
-Il 2 giugno 1952 da Ascoli Piceno; andammo in treno a Milano e poi cambiammo per Genova. Salpammo il 4 giugno.
Come si chiamava la nave?
-Augustus (in coro). Impossibile dimenticarlo. Era nuova, quello era il suo secondo viaggio per l’America. Era bellissima, tutta bianca. Aveva camerate con sei letti. Aveva anche una piscina, una sala da ballo, dei giochi, un cinema, una cappella. E si mangiava molto bene. Eravamo in seconda classe.
-Allo stretto di Gibilterra il mare cominciò ad agitarsi e c’era molta gente che stava male.
Facemmo una sosta a Dakar, in Senegal, e lì vedemmo per la prima volta i negri. Erano vestiti con un lenzuolo bianco.
-Avranno anche la lingua bianca?-chiese mia sorella.
Loro ce la mostrarono e noi scappammo spaventate.
-Accidenti, questi capiscono l’italiano!- commentammo. Probabilmente conoscevano il francese.
Quando arrivaste in Brasile?
-Sbarcammo a Santos il 17 giugno, dopo tredici giorni.
Che impressione ne aveste?
-Non la vedemmo per niente, perché accadde una cosa che non avevamo previsto. Ci divisero in due gruppi: uno lo spedirono alle fazendas di canna da zucchero nello Stato di São Paulo, e l’altro a quelle di caffè nello Stato del Paranà. Protestammo vivamente, può immaginare, volevamo stare tutti insieme… Avvenne tutto molto velocemente. Tenga conto che non conoscevamo la lingua e non ci aspettavamo quel comportamento…
-Non avemmo tempo neppure di salutarci e gli uni non sapevano dove gli altri sarebbero andati a finire.
-Perdemmo le tracce dei nostri amici. Anni dopo, mio padre Egidio andò al consolato per avere notizie delle famiglie partite nell’altra direzione. Era stato uno dei promotori del viaggio e diverse famiglie si erano aggregate attorno a lui. Si sentiva in colpa…
Dove si diresse il gruppo della canna?
-A Piracicaba, in gran parte alla fazenda Bela Vista.
Come arrivaste alle fazende?
-A Santos prendemmo un treno. In due ore arrivammo alla stazione di Paranapiacaba,[ in cima alla Sierra do mar, l’altipiano di São Paulo. La ferrovia che saliva la collina era ripidissima. Era una cremagliera con un cavo d’acciaio. Un treno saliva e l’altro scendeva. Esattamente a metà strada, i due treni si incontravano: uno andava a sud e l’altro a nord. C’era un solo binario. Il treno aveva una caldaia a vapore che faceva girare grandi ruote che trainavano i cavi.La ferrovia era stato costruita dagli inglesi. A Paranapiacaba cambiammo locomotiva e prendemmo un treno a vapore come usava allora ed arrivammo a São Paulo. Scendemmo alla stazione Do Brás (dal nome del quartiere omonimo) dove c’era l’Hospedaria, il centro immigrazione. Lì restammo qualche giorno.
(segue)
Redazione Radici