Com’era il pranzo di Natale dei nostri nonni
Panettone o torrone? Capitone o cappone? A Natale mettiamo in tavola i migliori piatti della nostra tradizione culinaria nati nelle povere cucine di una volta
Il Natale è alle porte: c’è chi ci si tuffa con entusiasmo e chi invece lo snobba. Quelli che, se potessero, lo depennerebbero dal calendario sono capponi, tacchini, oche e maiali. Sono loro infatti i dominatori indiscussi dei menù natalizi, sacrificati in nome della tradizione. Sono il simbolo del Natale dei nostri nonni, quando si lavorava tutto l’anno per mettere in tavola, quel giorno, solo il meglio.
MANGIARE A CREPAPANCIA. «Il Natale era una delle feste più “trasgressive” in una società costretta per necessità a essere morigerata. Il “peccato” si consumava a tavola e ci si lavorava per un intero anno. Dagli inizi del ‘900 il Natale era sinonimo di abbondanza una tantum, e non necessariamente di prodotti pregiati. Prevaleva la soddisfazione di poter mangiare a crepapancia, di assaggiare l’anguilla e il baccalà cotti nei diversi modi, e di non dover limitare l’appetito neppure di fronte alle noci e alle castagne su cui invece nel quotidiano si doveva lesinare» spiega Paolo Sorcinelli, ex docente di Storia sociale all’Università di Bologna. E quel giorno nulla poteva fermare la grande abbuffata.
«Nel Natale del 1836 a Napoli imperversava il colera. E una canzone ammoniva: “Chi se mangia o capitone, jarrà dinto a o carrettone”. Ma nonostante il divieto di portare in tavola il piatto napoletano tipico della vigilia e l’immagine del carro che trasporta i cadaveri dei colerosi, i consumi non ne risentirono e anzi prevalse forse l’esigenza di esorcizzare il pericolo incombente» spiega Sorcinelli.
SALSICCE, COTECHINI E SALUMI. «Nella società contadina, la preparazione del cibo era legata a una logica di autoconsumo. A Natale si mangiavano i prodotti accumulati durante l’anno. Del maiale si conservavano salsicce, cotechini e salumi. In tavola si mettevano anche i fichi fatti essiccare dopo la raccolta e l’uva passa: dopo la vendemmia se ne conservava sempre qualche grappolo, che si appendeva alle travi dei solai e si tirava giù per le feste» racconta Sorcinelli.
Quello del Natale a tavola è sempre stato un rito che iniziava il 24 dicembre. «Il giorno della vigilia era un giorno “di magro” che doveva preparare alla scorpacciata del giorno dopo, quando sulla tavola sarebbero transitate solo bombe caloriche. Una violazione occasionale alla fame consueta e atavica» spiega Sorcinelli. In alcune zone, però, per esempio in Lombardia, si “preparava lo stomaco” con un piatto di trippa. Sempre il 24 dicembre si preparava il brodo, in cui il giorno dopo si sarebbero tuffati i cappelletti in Romagna e i ravioli in Lombardia, e dal quale sarebbe uscito il secondo piatto di mezza Italia, ovvero il bollito o il cappone lesso.
«Il panettone che si mangiava allora era buono meno della meta di quanto lo sia adesso» spiega Stanislao Porzio, studioso delle tradizioni gastronomiche. «L’ingrediente era il frumento, stop: un bel pagnottone di farina bianca. Per l’epoca era gia un lusso sfrenato, visto che sulle tavole del popolo non c’era altro che pane di mistura, un cocktail di granaglie d’infimo prezzo».
POVERI PANETTONI. L’antenato dell’odierno panettone veniva preparato in famiglia e spesso consumato al ritorno dalla messa di mezzanotte, secondo un rituale che affidava al membro più anziano l’onore del taglio e destinava una fetta al primo povero che avesse bussato alla porta. In un momento così importante dedicato alla festa e al rinnovamento occorreva propiziarsi il nuovo anno che stava per iniziare attraverso un insieme di rituali, primi tra tutti quelli alimentari: una tavola imbandita all’eccesso invocava abbondanza per i tempi a venire. Anche passando sopra al cadavere “di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini”, come scrisse del cappone Pellegrino Artusi.
Tratto da “Secoli di festa a tavola” pubblicato su Focus Storia 38.