Insulti anonimi e tardivi pentimenti
di Salvatore Tropea
Se non fosse che accade trasversalmente a tutte le latitudini verrebbe da pensare a uno dei tanti vizi italiani e invece la globalità del mondo social in qualche misura ci assolve pur lasciandoci ai primi posti della classifica dei richiedenti scusa per ciò che si è detto o si è fatto. Ce lo portiamo dietro da sempre, questo comportamento, come una condanna inappellabile, ma con un’accelerazione che negli ultimi anni ne ha fatto un metodo diffuso e accettato con superficiale indifferenza. E non riguarda, come si sarebbe portati a credere, la popolazione variegata dei politici che pure ha contribuito a renderlo popolare derubricandone l’importanza. Come nella Scuola degli amanti di Mozart, “così fan tutte” e allora l’eccezione diventa regola, l’eccesso una normalità, le buone maniere un trascurabile di più. Il panorama non mostra distinzione di classe né per censo né per cultura né per credo religioso, dalla piazza alle aule parlamentari, dal bar ai salotti televisivi.
Lo sproposito parte come una fucilata e può essere diretto o telecomandato dalla rete, spesso è una frase -si fa per dire- ma può essere anche un gesto con preferenza per il dito indice puntato verso il cielo dei cretini come unica forma di giudizio. E non si cerchi una qualsivoglia preferenza per i destinatari in un incrocio di messaggi che coinvolgono tutti, dal vicino di casa all’uomo di governo, dal medico di famiglia all’insegnante dei figli, con una spiccata preferenza per le donne e da qualche tempo per i giornalisti additati come vil razza dannata con la sola eccezione di quelli che danno loro spazio per deprecabili e inconfessabili ragioni.
Il catalogo degli interventi è infinito quanto le volgarità che ne fanno parte, quando non si tratta di qualcosa di più offensivo e più pericoloso delle parole (una busta con un proiettile). Un prontuario che sciaguratamente tende ad aumentare col contributo di coloro -e non sono pochi- che essendo della stessa pasta degli autori trovano la cosa divertente e provvedono a diffonderla con l’aggiunta di un loro non meno detestabile commento. L’elenco dei personaggi presi di mira è infinito perché l’autore come il destinatario si trovano indifferentemente a destra o a sinistra o anche fuori dall’universo politico quando l’impresa è quella di palpeggiare una cronista o una qualsiasi ragazza da parte di un branco di maschi. Senza trascurare la spiccata propensione a lasciare spesso una traccia che rimanda a nostalgia nazifasciste con profusione di svastiche. Quando non si tratta semplicemente di furbizie tese a coprire qualche inadempienza o a giustificare qualche rifiuto.
Per cui si può insultare la senatrice a vita Liliana Segre negando l’olocausto di cui è stata vittima o attrezzarsi di un giubbotto di silicone per simulare una vaccinazione inesistente: la madre dei cretini è sempre incinta diceva Ennio Flaiano.
Poi però può succedere e succede che l’autore del “beau geste” venga scoperto o, essendosi palesato, inneschi una reazione ed ecco pronte le scuse: spesso affidate a un tweet o anche espresse a viva voce, confidando nella clemenza del destinatario che garbatamente accetta e spesso senza commenti pur consapevole che si sia trattato di voce dal sen fuggita. E se funziona, bene: altrimenti c’è sempre l’alternativa di atteggiarsi loro a vittime del fango mediatico. Come il medico al silicone che ha rimproverato i giornali e non si sa bene chi altri di avergli “rovinato la vita”. Chiedo scusa, non volevo, non intendevo dire, sono stato frainteso, sono addolorato (?), chi mi conosce sa che la penso diversamente: il prontuario delle scuse è piuttosto ricco nella sua monotonia, ma la sostanza non cambia. E se non fosse che a capo della Chiesa cattolica abbiamo un personaggio della caratura di papa Francesco verrebbe quasi la tentazione di pensare che questo delle scuse sia un vizio di assai vecchia data: dopotutto ci fu un tempo in cui abbiamo trafficato sulle indulgenze plenarie per coprire più di un’efferatezza. E non c’era la pandemia.