Marchigiani nelle fazende di caffè
Nei precedenti articoli ‘Marchigiani nelle fazende di canna da zucchero’ -pubblicati su ‘Progetto-Radici.it’ l’11 e il 16 dicembre 2021- ho allegato l’intervista realizzata ai marchigiani che negli anni Cinquanta hanno lavorato in semi-schiavitù nelle fazende di canna da zucchero a Piracicaba, in gran parte alla fazenda Bela Vista.
Hanno raccontato la storia Pia, Mario e Alberto Sciamanna (cugini tra loro), Isabella Nicolai ed i figli Renato e Teresa Gaetani, e sua nipote Elena Gaetani; Gino De Angelis, Giovanna Bruni, Giovan Battista Nobilioni; Violante e Ilario Mariucci (fratelli tra loro).
Le altre famiglie partite con loro dall’Italia (Fava, Cataldi, Collina, Pavoni, Massi, Vallorani, Di Benedetto, Ascani, Silvi e Angioletti) furono separate dalle prime a Santos e portate nello Stato del Paranà, a sud del Brasile, dove le attendeva la raccolta del caffè a Cornélio Procòpio (1500 km da Santos).
Ricostruiscono questa storia Giovanna Cataldi, Vittoria Collina, Domenica Gaetani ved. Collina, Maria Vallorani e Antonia Massi.
Intervista realizzata a São Roque e Vila Gulhermina il 15 novembre 2006.
Quale fu la vostra destinazione?
-Cornélio Procópio, a nord dello Stato del Paranà. Il treno ci portò
direttamente là, non passammo per l’Hospedaria.
Quanto distava da Santos?
-Oltre 1.500 chilometri.
Perché foste mandati là voi?
-Non so. I fazenderos sceglievano le famiglie sulla base delle braccia che disponevano per lavorare.
Come si chiamavano le fazende?
-Ce n’erano diverse. La nostra era Santa Irene, soprannominata Taliba. Era a venti chilometri da Cornélio Procopio. Eravamo con gli Ascani, i Silvi, i Fava…
-A noi ci mandarono alla fazenda Santa Rosa, assieme alle famiglie di Ottavio Angioletti e Alfredo Pavoni.
-Noi Vallorani restammo con i Massi, soli, non ricordiamo dove.
Quante famiglie lavoravano a Santa Irene, la più grande?
-Circa cento. C’erano anche abruzzesi, arrivati il mese prima. Ricordo che mentre le case degli italiani erano in mattoni, quelle dei brasiliani erano fatte di tavole. Il fazendero aveva un aereo personale. La sua casa era bellissima.
Anche la Santa Rosa aveva case in mattoni?
-Magari! Era terribile. Mancava la luce, l’acqua ed il gabinetto.
‘Siamo in un fosso!’-piangeva mia madre.
-Costruite con tavole poste una sopra l’altra, alla bell’e meglio. Da fuori si vedeva tutto. Ricordo che una volta mamma stese dei panni sopra alcune tavole di legno. Passò una mucca a pascolare e portò via tutto. Quando lo ricordiamo, ridiamo ancora.
-Dovevamo fare otto chilometri per andare a prendere l’acqua. Per quattro mesi non ha mai piovuto, così mio marito Enrico e mio cognato Alfredo hanno costruito un pozzo profondo trenta metri, ma l’acqua non c’era. Solo di mattina si potevano avere venti-trenta litri, ma era troppo sporca, così hanno lasciato perdere…
A che ora iniziava il lavoro?
-Alle cinque ci passava a prendere un camion suonando una campanella. Tornavamo alle nove di sera.
-Eravamo circondati da capangas, armati di coltelli e fucili. All’inizio erano umili ma poi cambiarono atteggiamento.
Facevate tutti lo stesso lavoro, indipendentemente dalle fazendas di appartenenza?
-Sì, facevamo la colheira (raccolta): raccoglievamo il caffè quando i chicchi erano pronti, tra marzo e aprile.
Che altezza può raggiungere una pianta di caffè?
-Otto metri, ma le varietà in produzione vengono potate e tenute più basse, fino ad un massimo di due o tre metri, per facilitare la raccolta.
Come sono le foglie?
-Lunghe e lucide; assomigliano a quelle dell’alloro e sono disposte a coppie.
-La pianta ha una particolarità: quella di avere contemporaneamente i fiori ed i frutti sullo stesso ramo.
Ed i fiori?
-Piccoli e bianchi, raggruppati a grappoli di cinque o sette. Mandano un profumo intenso, simile a quello del gelsomino.
I frutti sono chiamati drupe, mi pare…
-Sì. All’inizio sono verdi ma maturando cambiano colore, passando, a seconda delle varietà, da un giallo intenso ad un rosso viola acceso.
-Sembrano piccole ciliegie poste sul ramo.
Ho letto che il fiore è ermafrodito: racchiude in sè organi di riproduzione maschili e femminili: poche ore dopo essere sbocciato viene auto-impollinato dall’azione del vento o da insetti…Dove si trovano i chicchi del caffè?
-All’interno della polpa dei frutti. All’inizio sono due piccoli semi.
Chiamati caracoliti o perle…
-Hanno forma allungata, piatta da una parte ed arrotondata dall’altra. Sono avvolti da una pellicina sottile che li racchiude e che si chiama pergamino.
Quando una pianta da il massimo rendimento?
-Tra il sesto e il decimo anno di vita, poi diminuisce gradualmente
fino al quindicesimo.
-La vita di una pianta dura circa 30 anni.
Raccoglievate i chicchi manualmente…
-Sì, quando diventavano rosso scuro, si raccoglievano come le olive. Venivano messi in una peneira (grosso passino) per separarli dalla terra e dalle foglie.
-Poi venivano distesi in un’area grande, un cortile, dove li si doveva muovere ogni tanto con una grande rastrello: non tanto per seccarli, quanto per toglierne l’umidità.
Una volta raccolti, i frutti subiscono un processo di lavorazione che permette di separare la polpa dalla coppia di semi…
-Per raggiungere questo risultato, esistono due metodi: a secco e a umido.
Con il primo, i frutti vengono messi a seccare all’aria aperta e rigirati in continuazione per una ventina di giorni. Durante la notte vengono ammassati per proteggerli dall’umidità e dall’abbassamento della temperatura.
-Dopo questo periodo, si frantumano i frutti, ormai sbriciolati e si separa la pellicola secca che avvolge i chicchi del caffè.
Per le varietà più pregiate si preferisce il metodo a umido?
- Sì. Con questo si ottengono i caffè cosiddetti ‘lavati’. In questo caso i frutti vengono immersi subito dopo la raccolta in grandi vasche piene d’acqua dove rimangono per un breve periodo di fermentazione. Dopo questo primo trattamento, vengono tolti dalle vasche e spolpati meccanicamente.
-A questo punto i chicchi son fatti asciugare al sole o con macchine ad aria calda per privarli anche del pergamino che li avvolge.
Da entrambi i metodi si ottiene il cosiddetto grano verde…
-Sì. Il prodotto viene commercializzato ed esportato in grandi sacchi di iuta, pesanti circa cinquanta chili, che i camion passavano a prendere.
Per la tostatura?
-No, la tostatura va fatta nei paesi di destinazione e di consumo del prodotto. Ho letto che tanto tempo fa il caffè veniva tostato in piccole quantità con metodi rudimentali, spesso poco prima di preparare la bevanda. Il problema consisteva nel dare ai chicchi una tostatura uniforme: erano necessarie attrezzature in metallo che dovevano essere poste sul fuoco, per permettere la mescola dei chicchi.
-Vennero inventati tostini a manovella, di forma cilindrica, nei quali i chicchi verdi venivano fatti abbrustolire per trenta- quaranta minuti, per poi essere raffreddati su tavoli di marmo.
-Poi anche questo procedimento è diventato vecchio ed ora i tempi di tostatura si sono molto accorciati.
Quali sono i tipi più diffusi di tostatura?
-Quello blando (all’americana), che conferisce ai chicchi un colore marrone bruno, e quello più spinto (all’italiana), che dà ai chicchi un colore bruno-nero.
A che temperatura avviene la tostatura?
-A circa 200-220° di calore. I chicchi si gonfiano, aumentano di volume, ma perdono dal1’8 a1 22% di peso. In compenso, durante questo procedimento si sviluppano i principi aromatici e si liberano gli oli essenziali che danno al caffè la sua tipica gradevolezza.
Quante sono le miscele di caffè?
-Le più note sono l’Arabica, la Robusta e la Liberica. L’85% della produzione mondiale di caffè è ottenuta dall’Arabica, che, contrariamente a quanto dice il nome, è originaria dell’Abissinia.
-La Liberica, coltivata in alta Guinea, Africa Occidentale ed India, è scarsa di caffeina ed in genere viene utilizzata per la preparazione di decaffeinati.
Vi siete fatti una cultura in merito…ma torniamo alla fazenda Santa Irene. Quanto durò il vostro raccolto?
-Due-tre mesi. Prima dovevamo pulire la zona sotto le piante dove sarebbe caduto il caffè. Dopo il raccolto, la pulivamo per piantare fagioli, granturco. Avevamo il permesso di piantare ciò che serviva al nostro fabbisogno.
-Se c’erano eccedenze, le vendevamo. Avevamo un orto con peperoni ed insalata ed anche maiali e galline.
Anche le famiglie brasiliane facevano come voi?
-No, non usava proprio. Al fazendero il nostro modo di lavorare piaceva molto e lo mostrava agli amici che venivano a trovarlo.
-Apprezzavano molto le abitudini della tipica famiglia italiana, tanto che venne in seguito a trovarci in città, quando ci sistemammo là.
Quando partiste?
-Dopo un anno e mezzo circa.
Perché?
-Perché ci scrisse Egidio De Angelis. Si sentiva responsabile per noi, all’hospedaria noi non eravamo mai stati e non ci eravamo potuti nemmeno salutare. Per sapere dove eravamo finiti, è dovuto andare al consolato. Dopo la sua lettera abbiamo deciso la partenza.
-L’emigrazione era stata decisa per migliorare la situazione. Era inutile fare la stessa vita che facevamo in Italia. Così siamo venuti a Vila Gulhermina. Anche gli altri italiani se ne sono andati; ricordo che gli abruzzesi scelsero Jundiaí.
-Mi sono in seguito sposata con Umberto Fava che avevo conosciuto sulla nave. Io avevo tredici anni e lui quattordici. Era già in possesso di un passaporto.
Che succedeva intanto nella fazenda Santa Rosa?
-Alla fine del mese eravamo sempre in rosso. Abbiamo lavorato come le bestie senza mai vedere una lira.
-Avevamo portato dall’Italia tutti i nostri risparmi (la parte della mezzadria) e cominciavamo ad intaccare quel piccolo capitale. Io e mia sorella eravamo disperate!
-Allora papà e zio Alfredo andarono di sera in città, di nascosto. La domenica precedente avevano conosciuto un prete italiano che avevano informato della nostra storia. Anche il prete aveva detto che quella non era vita adatta a noi.
Perché andarono di nascosto?
-Perché non potevano uscire dalla fazenda, erano clandestini fuori di quella.
Come clandestini? Avevate documenti in regola…
-Erano in regola per lavorare nella fazenda, non per girare in città o attraverso il Paese! -Eravamo come schiavi, in parole povere…
-I documenti per poter vivere liberamente in Brasile per intenderci, dovevano essere fatti in città, a Cornélio Procopio, che distava dieci chilometri da casa nostra.
Andarono a piedi?
-Sì. Dissero poi ai capangas che volevano fare i documenti. Questi riferirono tutto al padrone, secondo il quale, invece, non ne avevamo alcun bisogno (in realtà non voleva che ce ne andassimo).
-Papà e zio Alfredo andarono di nuovo dal prete il quale, visto che non si poteva fare altrimenti, organizzò la fuga.
La fuga?
-Sì, trovò una persona di fiducia provvista di camion e ci aiutò nella fuga la notte stessa.
-L’indomani, alla madrugada, caricati tutti i mobili, siamo partiti col camion cercando di non far nessun rumore. Siamo arrivati a Curitiba, la capitale del Paranà e lì ci siano separati.
-Noi abbiamo continuato in treno fino São Paulo, loro hanno continuato in camion.
-Eravamo fuggitivi e dovevamo passare la frontiera. Pensammo che così non avremmo attirato l’attenzione della gente.
-La strada era di terra battuta, cinquecento chilometri circa.
-Fu un viaggio lungo: oggi dura solo sei ore, ma allora dalle dodici alle quindici ore. A Sao Paulo siamo scesi alla estacao do Luz.
-All’arrivo avevamo tutti la congiuntivite, per la polvere che avevamo preso.
-Stavamo male, ci curammo con impacchi di camomilla, ma questo non bastò a mio fratello Gabriele che gridava dal dolore. Siamo andati dal medico che ci ha dato una medicina a prezzo esorbitante: costava 7 conto di reìs (equivalente a 700 reali).