Purtroppo lo spettacolo è tristemente quello di sempre: una politica, inadeguata e impresentabile, che pretende di trasformare una clamorosa sconfitta in una vittoria per sopravvivere. Con questo abusato esercizio e la complicità di una componente di giornalismo corrivo e ancillare il salvataggio implorato a un galantuomo come Sergio Mattarella, in meno di quarantott’ore, è diventato una sorta di oscura manovra per delegittimare il Parlamento in cui avrebbe avuto parte anche Mario Draghi.
Va detto che il riferimento è a un parlamento che nella legislatura in corso ha visto cambiare casacca oltre 200 su 988 tra senatori e deputati con uno su cinque di questi che si è esibito in questi traslochi più di una volta. Ma chi l’ha detto che a uscire a pezzi da questa elezione del capo dello Stato sia stato il parlamento? Gli sconfitti -dovrebbe essere più che evidente- sono stati i leader dei partiti, in misura tra loro diversa tutti.
E questo per una ragione che, pur esistendo da tempo, viene da loro negata. Perché dissoltasi l’eco degli applausi per il ritorno di Mattarella, almeno i capi di tutti i partiti del turbolento centrodestra e della scombinata compagnia pentastellata, avrebbero dovuto rassegnare le dimissioni. Cosa che si sono ben guardati dal fare confidando nel loro ruolo non di leader di partito ma di padri padroni autorizzati a fare il bello e il cattivo tempo senza dover dare conto a nessuno. Col risultato che, invece che occuparsi senza perdere un solo minuto di tempo dei compiti urgenti presenti sul tavolo del governo, litigano, si accusano tra loro e si muovono come se fossero già in campagna elettorale per le politiche del 2023. Tutti colpevoli, nessun colpevole e avanti come prima.
Stando così le cose è doveroso precisare che questo comportamento non è nuovo ma viene da lontano. Forse è giunta l’ora di dire che non è stata una grande idea quella che, dopo il terremoto del 1992, è stata venduta come un salvifico superamento dei partiti e delle ideologie. Nessun dubbio sul fatto che la forma partito e il culto dell’ideologia che su cui si reggeva la politica nella seconda metà del Novecento erano da rivedere, ma questo non è avvenuto mentre è prevalsa l’illusione che la rigenerazione della politica potesse prodursi in modo spontaneo o come si diceva dal basso e, qualcuno aggiungeva, superando il concetto di destra e sinistra, con movimenti, girotondi, sardine e altre amenità che intercettavano il problema ma non lo risolvevano. E con un ardito salto nel vuoto si è passati dal vecchio partito con i suoi organi e le sue regole alle formazioni che sembravano partecipate ma erano invenzioni di un capopopolo.
Una vera proliferazione, come una bomba a grappolo. Chi disponeva di mezzi finanziari comprava, altri corrompevano, altri promettevano. Naturalmente finendo col tenere in mano quello che non essendo più un partito e non avendo più la passione di una bandiera per la quale lottare era ed è una massa più o meno informe di tifosi del padre-padrone pronta a votare per il candidato da lui indicato o imposto. Un meccanismo, questo, che non poteva che degenerare in una sorta di anarchia in cui ognuno si è messo in proprio negando ogni forma di rispetto e fedeltà al leader che a un certo punto non è stato in grado di garantire sulle scelte che pure aveva concordato con i parlamentari. Di qui la sconfitta dei leaders, non del parlamento e della politica che già non godevano di grande autorevolezza. Alla quale avrebbe dovuto far seguito una loro uscita di scena con immediate dimissioni.
Ma non essendoci un partito ed essendo loro padri padroni hanno ripreso le danze come prima. Arrivando persino a mettere in discussione Mattarella e Draghi di cui loro, messi assieme, non valgono neppure un capello.