Isola di Pasqua: il fascino della leggenda
L’Isola di Pasqua (chiamata dai nativi Rapa Nui Island, ossia “Grande Roccia”), situata nell’Oceano Pacifico, all’estremità sudorientale del Triangolo Polinesiano (2.300 Km dalla costa del Cile, cui appartiene), è di origine vulcanica. Fu popolata, intorno all’anno 300, da abitanti provenienti, probabilmente, dalle isole Marchesi (distanti 3.600 km), i quali la raggiunsero a bordo di canoe a bilanciere.
Le origini oscillano tra storia e leggenda già a partire dalla denominazione. A causa della posizione geografica, la scoperta, effettuata da alcuni esploratori olandesi guidati da Jacob Roggenveen avvenne, infatti, solo nel 1722, il giorno di Pasqua (da tale festività religiosa prese il nome). Grande stupore destarono le misteriose e colossali statue di pietra, chiamate Moai, le quali, ancora oggi, impressionano visitatori e turisti, come emerge dalle foto realizzate dalla scrivente.
Colonizzata successivamente dagli Spagnoli e visitata dal famoso James Cook nel 1774, una quota della popolazione fu trucidata nel 1862. Un considerevole gruppo di sopravvissuti, inoltre, fu deportato e schiavizzato in Perù per la raccolta del guano (fertilizzante altamente efficace grazie all’elevato contenuto di azoto, fosfato e potassio, nonché nutriente essenziale alla crescita delle piante e, in misura minore, usato ai fini della produzione di polvere da sparo e altri materiali esplosivi).
In seguito alle proteste del governo francese, i Peruviani rilasciarono i prigionieri, di cui, tuttavia, la maggior parte morì durante il viaggio di ritorno. I pochi superstiti, purtroppo, introdussero nell’isola, numerose malattie (compresa la tubercolosi), che causarono tanti decessi, da ridurre la popolazione a poche centinaia d’individui.
Fu colonizzata, quindi, dai Cileni, i quali stipularono accordi con una “compagnia” inglese ai fini dello sfruttamento dei terreni, destinati a pascolo per ovini. Missionari francesi, acquistato l’ultimo rifugio della popolazione, ubicato nell’area di Hanga Roa, nel 1868 convertirono al cristianesimo tutti gli isolani (l’ultimo re, con il nome di battesimo Gregorio, si spense, addirittura, l’anno prima, all’interno della missione).
I Moai, enormi busti monolitici, al pari dei complessi cerimoniali sparsi sul territorio, erano molto simili a quelli presenti non solo in altre aree della cultura polinesiana (tra cui, le Isole Marchesi), ma anche nel Perù centro-settentrionale, in Bolivia, Messico, Guatemala, Panama, Colombia, Ecuador, Isole di Pitcairn (rifugio degli ammutinati del Bounty) e di Raivavae (Tubuai), etc.
Le figure di pietra, costruite fra il 1200 e il 1500, erano alte da 2 a 10 mt (una, addirittura, è di 21 mt non ultimata e rinvenuta nella cava). Il peso di un Moai di 10 mt osillava, ad esempio, fra le 70 e 80 t. Per muoverlo, si ritiene fossero necessari circa 180 uomini. I grandi copricapo raggiungevano, invece, un’altezza massima di 2,1 mt e un peso di oltre 11 t.
In prevalenza si tratta di figure antropomorfe monolitiche, in quanto scaturiscono da un unico blocco di roccia vulcanica. Di solito, emergono solo le teste, perché la parte rimanente non è visibile in quanto interrata. Poggiano su piattaforme di pietra – dette Ahu, spianate cerimoniali con funzione multipla (sepolcri degli antenati, o altari sacri, guardati a vista da solerti guardiani) ed orientamento astronomico molto preciso, da nord a sud, in modo che le facce guardino esattamente verso il punto in cui il sole tramonta all’equinozio di primavera (21 Settembre) e le schiene risultino rivolte verso l’alba in quello d’autunno (21 marzo).
Le statue rappresentavano, forse, capi tribù o, secondo una credenza popolare, entità che consentivano ai vivi di prendere contatto con il mondo dei defunti. Alcune sono rivolte verso il mare, mentre la maggior parte volge lo sguardo all’interno dell’isola, probabilmente in direzione dei villaggi, a mo’ di custodi adibiti a sorvegliare e proteggere gli isolani da estranei, favorire il benessere e la prosperità, chiedere la protezione agli dei e catturare i mana (energia della forza vitale spirituale o potere curativo che permea l’universo), attribuire poteri soprannaturali al capo e richiamare eventi propizi, tra cui la caduta della pioggia e, di conseguenza, la possibilità d’irrigare i terreni.
Da uno studio della Binghamton University, emerge che i Moai, probabilmente, “segnalavano” anche la presenza di polle sotterranee o superficiali, in quanto sia gli Ahu che molte statue erano ubicate in prossimità di sorgenti d’acqua. In tal modo, l’immagine protettiva-divinatoria degli avi, veniva coniugata con il raggiungimento degli effetti benefici e condivisione, nell’ambito della comunità, delle risorse idriche, peraltro poco copiose, ma di notevole importanza ai fini della sopravvivenza della popolazione locale.
Si ritiene che in origine le statue, con le teste somiglianti fra loro (nel passato, le orbite degli occhi erano di ossidiana e corallo bianco, mentre, oggi, tranne una, sono tutte vuote), lo sguardo ed il mento rivolti verso l’alto, le labbra serrate ed il naso appuntino, in atteggiamento ieratico e severo, fossero circa mille.
Le sculture – erette per onorare un capo clan deceduto – venivano costruite direttamente nelle cave di tufo, situate lungo le pendici del vulcano Rano Raraku (all’interno sono stati rinvenuti circa 400 esemplari non ultimati) e poi trasportate, per diversi chilometri, forse sia per mezzo di tronchi di legno a mo’ di rulli, sia in posizione verticale mediante funi (in questo caso, si muovevano oscillando e davano l’impressione che camminassero). Calate lungo il pendio del Rano-Raraku, a metà percorso, le statue venivano, dapprima, provvisoriamente, sistemate in fosse per essere sottoposte ad un minuzioso lavoro di rifinitura e, infine, collocate sulla tomba del defunto.
Sul dorso erano incisi, probabilmente con stili di ossidiana o piccoli denti di squalo, misteriosi simboli in rongorongo (sinora, nessuno è riuscito a decifrare completamente tale scrittura), che rappresentavano, in prevalenza, figure umane, ma anche canoe (vaka), falci di luna, forme geometriche astratte, animali e piante in successione bustrafedica inversa – tecnica evidenziata anche dalle iscrizioni antiche, greche, italiche e latine –, in quanto la direzione cambiando da riga a riga (dal basso in alto e da sinistra a destra), consente di continuare la lettura della successiva.
La costruzione delle statue fu definitivamente bloccata da diversi fattori, tra cui gravi problemi socio-economici, decimazione della popolazione in seguito ad una preoccupante epidemia, o conflitti tribali (la fazione vincente abbatteva le sculture appartenenti alla rivale).
La tesi più accreditata degli studiosi, stabilisce, tuttavia, che l’isola, fu sottoposta ad un capillare disboscamento, in quanto il trasporto delle statue antropomorfe richiedeva una grande quantità di legname e, nel corso dei secoli, le risorse forestali vennero esaurite e crearono anche gravi problemi ambientali, oltre alla migrazione degli abitanti ed alla interruzione, per sempre, della produzione dei Moai, destinati ad essere avvolti, pertanto, con il passare dei secoli, in un mistero sempre più fitto.
Le antiche leggende relative alla misteriosa civiltà dei primi abitanti dell’Isola di Pasqua, narrano non solo le vicende di un capo clan impegnato nella ricerca di una nuova casa e terra (da dividere tra i figli alla sua morte) e le tecniche, usate dai Rapa Nui, in merito al trasporto, per tutta l’isola, delle colossali statue, ma anche la discesa, in volo, dal cielo dei Tangata manu, guidati da Makemake, ritenuto il creatore dell’umanità, divinità principale del culto dell’Uomo Uccello – generò, in seguito, la gara rivolta alla conquista del potere supremo – e dio della fertilità.
Ad Orongo, nel corso del XVII secolo, le tribù sempre in guerra fra loro, riuscirono a stipulare un accordo per ristabilire l’ordine, la pace, l’assegnazione-gestione del potere e potestà di governo. Fu stabilito che, ogni primavera, il potere veniva affidato, per un anno, ad uno, tra gli uomini più forti, che avrebbe vinto una sorta di competizione sportiva, basata su diverse prove fisiche. Esse prevedevano il tuffo, in mare, da una roccia a strapiombo; il raggiungimento a nuoto, sfuggendo agli squali, del Motu Nui (il più lontano dei tre isolotti), distante un chilometro e mezzo dalla costa, dove nidificava la sterna fuligginosa e prelevare un uovo da portare a terra, incastonato in una specie di turbante situato sulla testa del partecipante.
Veniva definito vincitore, chi, tra gli sfidanti, sarebbe riuscito a tornare al villaggio ed a consegnare l’uovo intatto al Gran Sacerdote. La vittoria gli garantiva, fino alla gara successiva, diversi privilegi, tra cui incarnare il mitico Uomo Uccello, assegnare il proprio nome d’investitura al nuovo anno e risiedere in un’abitazione speciale, con vitto e alloggio gratuiti, che gravavano sulla tribù.
Ci sono luoghi le cui origini risultano misteriose e ammantate di fascino e leggende, come quelle che avvolgono i busti antropomorfi, in tufo trachitico, di grandi proporzioni, emblema dell’Isola di Pasqua, posta a sud-est del Triangolo Polinesiano, che fanno parte del Parco Nazionale ed hanno reso Rapa Nui Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.