Non solo in Ucraina
Di Daniela Piesco Vice Direttore Radici
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio la guerra.
Gianni Rodari , Promemoria
È scoppiata la guerra, Putin ha deciso di invadere, come un giocatore d’azzardo l’Ucraina schierando carri armati e la vita delle persone considerate alla mera stregua di pedine di cui nulla gli importa.
Guerre espansionistiche, guerre ideologiche, guerre di legittima difesa: tutte quante, persino le più giustificate e apparentemente più giuste, portano ad una miseria economica, sociale e quindi, soprattutto, morale, che tira fuori il peggio dall’uomo per abituarsi al sangue e alla violenza.
A chi è rimasto ancora un po’ di buon senso, lavori ora e subito per la pace. Perché di questa maledetta guerra rimarrà solo la follia di chi l’ha generata e vittime innocenti.
Eppure la guerra è nel cuore dell’uomo. Sin dai tempi più antichi l’umanità, incapace di uno sguardo lungo e paziente sulle cose, attanagliata ciclicamente dai propri bisogni e dal proprio orgoglio, stretta tra l’accettazione del senso del limite e l’eccitazione del senso di potenza, si illude di trovare nella guerra una soluzione veloce e risolutiva ai problemi e finisce per scrivere col sangue dei propri figli , elencati come semplici numeri ed effetti collaterali , lunghe pagine di “storia”.
Le Origini della crisi Russia Ucraina
Per capire le origini della crisi tra Russia e Ucraina occorre fare un passo indietro almeno fino al 2013, anno dell’esplosione delle proteste che presero poi il nome di Euromaidan. Fu allora che diventarono incandescenti le relazioni tra i due Paesi, che a dire il vero non sono mai state idilliache da quando Kiev dichiarò l’indipendenza dall’Unione sovietica il 24 agosto 1991, pochi giorni dopo il colpo di Stato con cui alcuni militari provarono a rovesciare l’allora presidente Michail Gorbačëv, anticipando la caduta del comunismo che sarebbe poi avvenuta alla fine dell’anno. Dalla sua indipendenza la nazione ha sempre oscillato tra la vicinanza all’Occidente e quella alla Russia, con la politica che rispecchiava in questo senso una divisione che era forte anche nella popolazione.
Le ragioni della Russia
Mosca è naturalmente interessata a mantenere un’influenza nel Paese, influenza che dalla cacciata di Yanukovych è diventata ormai praticamente nulla, con tutte le forze che si sono alternate al potere che sono state spiccatamente filoeuropee, mentre i partiti e i politici filorussi sono stati fortemente osteggiati. Per Putin le ragioni di questa necessità di influenza sono non soltanto storiche, visto che l’Ucraina è considerata storicamente parte della Russia, ma anche geopolitiche, perché il Cremlino vuole impedire una adesione della Nato che di fatto significherebbe che gran parte del confine occidentale della Russia sarebbe presidiato dall’Alleanza Atlantica (cosa che dall’altra parte agli Usa e all’Occidente farebbe comodo). Dopo il 1997 sono entrate nella Nato Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Romania e Bulgaria, Putin non può permettere che lo faccia anche Kiev (che ha più volte espresso questa volontà).
Altri focolai di tensione
Mentre l’attenzione internazionale si concentra sulla minaccia che la Russia di Vladimir Putin fa incombere sulla repubblica ex sovietica, altri focolai di tensione, meno vistosi ma non meno pericolosi, restano accesi in alcune zone del pianeta.
Mi riferisco alla nuova proiezione di potenza esercitata sul Mar Cinese meridionale dal regime di Pechino, che intende tradurre la sua poderosa crescita economica in una corrispondente influenza geopolitica. Qui molti sono i punti di frizione con diversi Paesi circostanti (Vietnam, Filippine, Malaysia), ma il nodo più difficile da sciogliere resta quello di Taiwan, che la Cina considera una parte integrante del territorio nazionale sottratta alla propria sovranità.
La vicenda affonda le sue radici all’epoca della guerra civile tra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chiang Kai-shek. Questi ultimi, sconfitti, si rifugiarono nel 1949 appunto a Taiwan, sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti, e per lungo tempo conservarono il seggio all’Onu. Poi nel 1972 Washington riconobbe il regime di Mao e l’«isola ribelle» entrò in una specie di limbo, nel quale si trova tuttora.
Pechino, per bocca del suo leader Xi Jinping, ostenta la sua volontà di assoggettarla: il rischio di un conflitto aperto, con un possibile coinvolgimento americano, non può essere sottovalutato.
Se da Taiwan ci si sposta a nord, ecco un altro teatro di tensioni : la Corea tuttora divisa lungo lo spartiacque della guerra fredda. Il regime del Nord, retto in forma dinastica dalla famiglia Kim, si può considerare l’ultima propaggine dello stalinismo: un sistema che impone alla popolazione sacrifici enormi per raggiungere i propri obiettivi in fatto di armamenti.
Oggi Pyongyang è una potenza nucleare, il che apre scenari sinistri in caso di destabilizzazione, tanto più che in Corea del Sud sono stanziate ingenti forze americane.
Il terzo e ultimo scenario si trova più vicino a noi, in Africa: oltre il deserto del Sahara c’è la fascia semiarida del Sahel, che va dalla Mauritania al Sudan. Qui si susseguono colpi di Stato, ribellioni secessioniste, flussi migratori, conflitti per il controllo delle materie prime, con una rilevante presenza del terrorismo di matrice jihadista musulmana.
La Francia, che ha un passato coloniale importante nella regione, ha inviato i suoi militari, ma con scarsi risultati e ora ha annunciato un parziale disimpegno. È presente anche una missione italiana di truppe speciali nel quadro della task force europea Takuba, a guida francese, che presto lascerà il Mali dove oggi si trova. Nello stesso Mali si registra invece l’arrivo di forze russe mercenarie, ma legate al governo di Mosca: il cosiddetto Gruppo Wagner.
Se a questo si aggiunge che in Libia la situazione resta esplosiva per il ribollire di agguerrite fazioni rivali, bisogna concludere che i motivi di preoccupazione non mancano.
Spesso sappiamo come le guerre cominciano ma non come finiscono realmente
Sono troppe le variabili in gioco per poter definire con chiarezza se ci sia una guerra giusta; proprio per questo la guerra è inutile e per tentare di risolvere i problemi finisce per crearne di più grandi negli anni a venire, destabilizzando intere aree geografiche ed equilibri politici consolidati.
Proprio per questo, la costituzione italiana ripudia la guerra come strumento di risoluzione di problemi tra popoli.
Ma la domanda è : Siamo in guerra anche noi?
No. Gli Stati Uniti e la Nato hanno dichiarato con chiarezza che non interverranno militarmente: l’Alleanza Atlantica prevede di difendere da un attacco esterno gli stati membri e l’Ucraina non lo è. Gli spostamenti di truppe americane, per esempio dalle basi in Italia al Baltico, hanno soltanto lo scopo di dissuadere la Russia da iniziative belliche verso i paesi della Nato. Putin non ha dichiarato niente del genere, ma ha minacciato “ripercussioni come non ne avete mai viste” se ci fossero interferenze straniere nel conflitto in Ucraina: l’obiettivo del rafforzamento di truppe lungo i confini orientali dell’Alleanza Atlantica è solo quello di rassicurare le popolazioni e di esercitare un deterrente verso Mosca.
Le guerre hanno sempre un prezzo per tutti
Cio non toglie che le guerre hanno sempre un prezzo per quasi tutti e che potrebbero esserci sacrifici da fare anche per noi. Ma non si può abbandonare l’Ucraina, un paese che nel 1991, al crollo dell’Urss, ha votato a stragrande maggioranza per l’indipendenza, perfino nella Crimea abitata al 90 per cento da russi il 55 per cento si schierò per l’indipendenza. Mettiamoci nei panni della gente di Kiev. E anche dei russi che, per quanto ingannati dalla propaganda delle fake news del Cremlino e sobillati dal nazional-populismo di Putin, cominceranno a domandarsi se è questa la strada giusta. Senza bisogno di “morire per Kiev”, l’Europa deve vivere per la democrazia e la libertà di tutti i suoi popoli.
Redazione Stampa Parlamento
pH Fernando Oliva (https://www.facebook.com/fernando.oliva.1029)