“L’associazione-spiega Diana Anselmo, co-fondatrice- è nata nel 2020, durante il lockdown. Partecipiamo ai festival, promuoviamo opere di artisti che lavorano in un’ottica di accessibilità, organizziamo speech pubblici per presentare noi stessi e i nostri artisti. Ci battiamo per l’accessibilità del pubblico, di coloro che lavorano dietro le quinte e degli artisti. L’accessibilità, infatti, oltre che architettonica, è anche culturale ed è quella su cui lavoriamo di più, per aprire i luoghi d’arte e cultura alle persone con disabilità e far sapere loro che possono accedervi”.
Dal punto di vista del pubblico, l’accessibilità non è legata solo all’assenza di barriere architettoniche, ma ha a che fare con la possibilità di scegliere a quale spettacolo assistere, senza doversi accontentare di quelli pensati per alcune disabilità in particolare (soprattutto sensoriali come la cecità o la sordità). Per fare questo è necessario un profondo cambiamento culturale, spiegano gli Al Di Qua Artists, perché occorre che lo stesso processo creativo cambi.
Guardando al ‘dietro le quinte’, la necessità è quella di consentire alle cosiddette maestranze di poter esercitare il proprio lavoro anche se si tratta di persone con disabilità. Anche in questo caso, le produzioni dovrebbero pensare se stesse non solo in termini burocratici di presenza di lavoratori disabili, ma come luoghi che possano valorizzare le competenze di questi lavoratori. Infine, riguardo agli artisti, lavorare sull’accessibilità significa consentire loro di entrare nel processo creativo così da poter offrire il loro punto di vista, di essere scelti per ogni tipo di ruolo che non rientri solo nella gamma degli stereotipi legati alla disabilità e, in questo modo, distruggere quelle barriere che, ancora oggi, non consentono ai ragazzi con disabilità anche solo di pensare di poter dare voce al loro spirito artistico e farne una professione. Per questa ultima, complessa e profonda operazione, è quanto mai necessario rendere accessibili alle persone disabili i percorsi di formazione accademica e fornire ai docenti i giusti strumenti per accompagnare questi studenti nei loro percorsi formativi.
Nel corso della mattinata è stato anche presentato il volume ‘Lost in translation. La disabilità in scena’, scritto da Dalila D’Amico con l’intento di evidenziare come tutto il mondo delle arti performative sia fondato su un modello ‘abilista’ dell’essere umano per cui gli artisti disabili trovano spazio solo in rappresentazioni stereotipata e faticano a trovare spazi di espressione nei quali offrire il proprio punto di vista e la propria reale esperienza di vita e d’arte.