Argentina: la colonizzazione della pampa
1. I braccianti
Terra generosa, terra che aspettava, ma quando fu raggiunta nel suo grigiore monotono, immenso ed uguale, sgomentò i primi lavoratori: se non vede un orizzonte, anche il più audace degli uomini perde animo e coraggio; i sensi umani hanno bisogno di appoggiarsi su un confine o, almeno, di immaginarlo.
Terra sterminata la pampa, più si procedeva e più pareva di essere al primo passo; una terra senza nodi e senza poesia, ma appunto, perché tale, d’una monotonia, d’una durezza da piegare i giganti.
E poi c’era quel cielo che non si capisce dove comincia e dove finisce…resistere a quel cielo era difficile perché non soltanto monotono e duro come la terra, ma staccato, lontanissimo: iimpossibile comprenderlo con lo sguardo, quasi persino crederlo vero…il cielo della pampa non ha rapporti con il basso, ha le sue stelle e le sue nuvole, ma così distanti, così perse nello spazio che converrebbe abbandonare la terra e sentirsene staccati per appoggiarvi lo sguardo con confidenza E poi le notti nella solitudine, il pampero, i tramonti brevi, le albe lunghissime, i crepuscoli teneri, carezzevoli, persino estenuanti!
La colonizzazione della pampa iniziò nella provincia santafesina ad opera dei gringos, termine col quale i criollos chiamavano i coloni europei in generale (ai galiziani era riservato il termine gallegos); turchi, armeni e arabi erano turcos, russi, ebrei e tedeschi rusos.
La prima colonia della pampa gringa – come lo scrittore Alcides Greca la chiamò più tardi – fu battezzata Esperanza. Venne fondata nel 1853 da Aarón Castellanos che assunse direttamente 200 famiglie europee (in prevalenza svizzere e tedesche) dopo aver siglato un contratto con il presidente Urquiza.
Nel 1882 Esperanza era già diventata una cittadina molto importante: le famiglie erano già settecentocinquantasei e vi abitavano già circa mille italiani.
La seconda colonia in ordine cronologico fu San Carlos: fu fondata dall’impresa Beck e Herzog, grazie a famiglie provenienti dal Piemonte e dalla Lombardia.
I primi contratti, depositati presso l’Archivo General de la Nación, prevedevano la consegna
a ciascuna famiglia di
un terreno di 20 cuadras (equivalente di 33 ettari), i materiali necessari per la costruzione di un ranch (capanna), quattro buoi mansueti, due cavalli, quattro vacche da latte, due vitelli e due maiali, i viveri necessari per un valore di 60 pesos a persona adulta, i semi necessari per la semina del terreno. I coloni a loro volta si obbligavano a consegnare all’impresa la terza parte del raccolto a cadenza annuale, a partire dal giugno successivo all’arrivo nella colonia, nonché, allo scadere dei cinque anni, la metà di tutti gli animali nati nel frattempo. Alla fine del periodo, adempiuto quanto sopra, la famiglia diventava proprietaria della terra e di tutto quello che produceva.
La terza colonia, San Jerónimo, fu fondata nel 1859 da Ricardo Foster; nel 1870 sorse Mauricio Franck ed ancora Santa Maria Norte, Candelarias, Pilar. Presidente Roca, Colonia Aldao, Fidela e Galvez.
L’emigrazione marchigiana, iniziata con forte ritardo rispetto a quella del resto d’Italia, non riuscì ad inserirsi nel primo ciclo, quello della distribuzione gratuita delle terre. I marchigiani concorsero sì allo spostamento della frontiera gringa, ma si trovarono a sfruttare aree marginali e a lavorarle tramite contratti di affitto e sub – affitto.
Il giornalista Olindo Pantanetti descrive così la loro vita nell’articolo pubblicato su ‘L’esposizione marchigiana’ del 5 maggio 1905:
I marchigiani che si dedicano all’agricoltura vivono nelle province agricole di Buenos Aires, Santa Fe in prima linea, Córdoba, Entre Ríos, a gruppetti esigui, sparsi qua e là senza coesione (e sono noti come ho detto col nome di romagnoli). Ora questo fatto non è da incolparsi alla solita inerzia, ma è dovuto ad altre cause.
Mentre l’emigrazione piemontese è vecchia di molte decine d’anni (conosco famiglie venute a stabilirsi qui intorno al ’60 e cioè sugli albori della colonizzazione agricola argentina), l’emigrazione marchigiana è molto più recente, almeno in cifre tali da essere tenuta in conto; ed i calcoli più spinti non credo possano rimandarla indietro del ’70 -’80, pensando che all’inizio fu specialmente di gente di mare e operai e solo più tardi venne l’elemento campagnolo. Poi ebbe per lunghi anni un altro carattere che ancora in parte conserva e cioè fu temporanea e di uomini soli.
E’ noto infatti che le donne dei nostri campi sono restie ad abbandonare il casolare. Solo in questi ultimi tre lustri l’emigrazione di famiglie intere prese un notevole incremento.
L’emigrazione piemontese risale a decine di anni fa e ciò ha reso più facile lo stabilirsi dei nuovi venuti sopprimendo molti dei vincoli di richiamo nella madre patria, ha facilitato nuclei importanti di popolazione omogenea.
Al fattore temporale si deve poi l’acquisto o il reperimento delle terre migliori, alle migliori condizioni, prezzi, qualità, ubicazione: il numero dei coloni marchigiani proprietari di buone estensioni di terre é relativamente scarso rispetto a quello dei piemontesi.
Un accenno di cambiamento si è verificato solo nell’ultimo quinquennio.
La pampa fu indubbiamente una terra generosa, ma volle sentirsi conquistata in profondità e pretese dagli uomini un amore continuo, chiuso e geloso. Se essi avessero speso soltanto forza e sudore, il loro slancio non sarebbe stato ripagato; molti di loro avrebbero finito col lasciare il lavoro a metà…e via di corsa in cerca di una terra, magari meno fertile ma più accogliente. Fu una battaglia lunga e dura quella che intrapresero ma vittoriosa: quei coloni strinsero i denti e chiusero gli occhi, la fede in sé stessi li nutrì e li soccorse. Ma anche un pensiero li nutrì e li soccorse, quello di andare avanti fino alla fine:
E tuttavia, oggi che questa terra è quasi tutta divisa in poderi e bianche e limpide si alzano là in mezzo le case coloniche, chi direbbe che questa creazione sia il prodotto di una lotta così angosciosa, di uno sforzo anche psicologico così intenso?Rifletteva al riguardo lo scrittore Mario Puccini.
Il mito del fare l’America durò pochi anni: già negli Ottanta si fece avanti la figura del peón, il salariato agricolo o urbano, alle dipendenze dei capitalisti argentini, inglesi e talvolta di coloni ed imprenditori italiani.
Nelle province cerealicole della costa e dell’interno, dove erano coltivati grano, mais, lino, patate, fagioli (al nord si privilegiava canna da zucchero e alfalfa), la manodopera era così costituita:
-braccianti stabili: abitavano nella colonia o nei pressi, svolgendo d’inverno ogni tipo di manovalanza (carrettieri, ortolani, manovali) mentre d’estate partecipavano alle varie fasi del raccolto. Erano preferiti dai coloni, perché esperti in tutti i lavori agricoli;
-braccianti avventizi: d’inverno abitavano in città dove lavoravano nei porti, nelle fabbriche o alla costruzione di ferrovie;
-golondrinas: venivano a fare la stagione approfittando della sospensione dell’attività agricola in Italia (dicembre era il mese del raccolto del grano e marzo quello del mais).
I braccianti avventizi e le golondrinas si spostavano da una colonia all’altra alla ricerca di lavoro e per questo venivano chiamati lingeras.
I braccianti lavoravano tutta la giornata, con due ore di riposo distribuite in tre fasi. Erano retribuiti a cottimo ed in più ricevevano carne, gallette e mate. Il loro salario oscillava all’equivalente di settanta – centoventi lire al mese e variava secondo la stagione, il luogo e l’abbondanza del raccolto.
Una famiglia di quattro – cinque persone poteva guadagnare durante la stagione l’equivalente di mille – milleduecento lire; da questa somma doveva essere detratta la spesa per il curandero (guaritore) cui dovevano ricorrere per insolazioni, febbri ed infortuni sul lavoro.
Nel periodo della cosecha (raccolta) le ferrovie praticavano sconti dal 20 al 50% per gruppi di braccianti.
I peones partecipavano anche alla raccolta del granturco: anche qui erano pagati a cottimo, un tanto per ogni sacco di pannocchie (ottanta chili); in una giornata potevano arrivare a confezionare venti sacchi.