Da Vasco e Marra a Ultimo, le recensioni alle uscite della settimana

Da Vasco e Marra a Ultimo, le recensioni alle uscite della settimana

E poi ancora, Lazza in versione The Weeknd e Sangiovanni in versione BLANCO; tornano a lavorare insieme Dj Jad e J-Ax e inaugurano una meravigliosa collaborazione Cor Veleno e Tre Allegri Ragazzi Morti. Stupendi i dischi di Gianni Bismark, J Lord e Carlo Corallo. Splendido il singolo dei Post Nebbia, chicca della settimana.

Cor Veleno e Tre Allegri Ragazzi Morti

La discografia italiana questa settimana propone tantissimi nuovi lavori, dal duetto Vasco Rossi/Marracash a Ultimo in versione pianoforte e voce. E poi ancora, Lazza in versione The Weeknd e Sangiovanni in versione BLANCO; tornano a lavorare insieme Dj Jad e J-Ax e inaugurano una meravigliosa collaborazione Cor Veleno e Tre Allegri Ragazzi Morti. Stupendi i dischi di Gianni Bismark, J Lord e Carlo Corallo. Splendido il singolo dei Post Nebbia, chicca della settimana.

Vasco Rossi feat. Marracash – “La pioggia alla domenica”: Tra Vasco Rossi e Marracash a nostro parere vince Marz, che è colui il quale si è aggiunto al banco regia evidentemente per integrare il rappato di Marra sul brano già edito di Vasco. Certo, è chiaro, con “vincere” non intendiamo certo che ci fosse gara, anche perché in pochi possono mettersi accanto a Marracash, nessuno accanto a Vasco; ma se il brano “avanza” rispetto alla versione inserita in “Siamo qui”, ultimo lavoro del rocker di Zocca, tristemente ingoiato nel dimenticatoio dalla voragine del nuovo pop, a dimostrazione che nemmeno il più iconico di tutti può niente dinanzi a questo spaventoso mostro, è merito delle nuove sonorità inserite nel pezzo; quindi Marracash e Marz. Il rapper si intrufola meravigliosamente dentro una canzone che già di suo funzionava, una canzone che infatti suona bene e ancor meglio siamo certi suonerà nei live; niente di memorabile, intendiamoci, ma il ricavato finirà nelle tasche di Save The Children quindi ascoltatela attentamente che ne vale la pena, e ascoltatela tante volte, ingrassiamo questi ricavati il più possibile.

Ultimo – “Home Piano Session”: Il cantautore romano propone sei brani del suo “Solo” in versione pianoforte e voce, più un inedito, “Equilibrio mentale”, disperato grido d’aiuto per chi si sente da solo accerchiato dai pensieri. Un esperimento funzionante, è chiaro, perché Ultimo le canzoni le sa strutturare perfettamente; certo la poetica rimane piuttosto spicciola, vince più il sentimentalismo a buon mercato in una serie di brani che sembrano la fotocopia di un unico brano, che Ultimo ha scritto intorno al 2016 e al quale si è evidentemente molto affezionato, roba che colpisce chi si accontenta, solitamente i giovanissimi, per intenderci. Ma quando colpisce, serve ricordarlo affinché non si passi necessariamente per nerd che si danno delle arie, Ultimo colpisce duro, questi brani traducono al millimetro la sensibilità di un’intera generazione, che altrimenti starebbe lì ad idolatrare divi di plastica della trap che se la chiacchierano a proposito di soldi, donne oggetto e pistoloni da cowboy. Meglio Ultimo, che almeno ha un’idea di musica, suona uno strumento e ci tiene a dire qualcosa.

Lazza – “Molotov”: Un singolo dal respiro internazionale, tanto etereo e danzereccio nella confezione quanto diretto e schietto nel testo. Non ci sono particolari guizzi in termini di barre, eppure riesce a trasmettere il tormento degli intenti, questa altalena amorosa indecifrabile che ci fa sentire freddo all’inferno, che ci fa amare e non sopportare una persona allo stesso tempo; quel furore ultraterreno, quel senso di fastidio supremo. Non è forse il miglior brano di Lazza, che è uno dei nostri migliori rapper in assoluto e ci ha abituati a triple capriole mortali con le parole, ma è un buon brano, il ritornello poi non ti si toglie dalla testa.

Cor Veleno e Tre Allegri Ragazzi Morti – “Meme K Ultra”: Quando escono dischi così le parole si riducono all’osso. Cor Veleno e Tre Allegri Ragazzi Morti sono due realtà, tra le più storiche rispettivamente di rap e indie italiano, non solo qualitativamente elevate ma anche filosoficamente importanti da tenere in considerazione; specie in un momento in cui il rap è diventato pop e l’indie è stato disintegrato alla prima passeggiatina al sole del mainstream. “Meme K Ultra” è un disco raffinato, artigianale, in cui le barre old style dei Cor Veleno si incastrano perfettamente nelle meravigliose litanie dei Tre Allegri Ragazzi Morti, sempre con un occhio alla realtà, sempre tenendo strette le redini di un cantautorato impegnato, sensato, mai fine a se stesso. I brani del disco sono tutti tutti tutti belli, tant’è che scorrono veloci e si bevono con estrema facilità; spingendo alla riflessione, è chiaro che si tratta di un disco maturo, si sente netta la forza di spirito di chi ne ha già passate, ma senza negarsi il gusto dei colpi di tacco, delle pennellate di rara fattura, ma soprattutto la volontà di mettere insieme due mondi solo apparentemente distanti per crearne un terzo, nuovo, gigantesco, meraviglioso. Non c’è una canzone in particolare da suggerire, preferiamo impegnare lo spazio per chiedervi, consigliarvi, scongiurarvi, di ascoltare questo disco con l’attenzione che merita. Ci farete sapere.

Sangiovanni – “Cielo dammi la luna”: Certamente, in assoluto, senza alcun dubbio, il miglior brano finora sfornato da Sangiovanni. Ancora non gli hanno insegnato a pronunciare le vocali, eh vabbé, non si capisce questa irresistibile attrazione per lo sbiascicamento, ma d’altra parte non è l’unico; e, saremo maliziosi noi, ma dietro quella straziante disperazione ci leggiamo un più o meno chiaro riferimento stilistico a BLANCO, solo eseguito decisamente peggio. Però almeno, che diamine, si percepisce uno straccio di carattere, uno straccio di intenzione, la volontà di voler dire qualcosa, di restituire una sensazione, ed è già tanto rispetto al punto di partenza, secondo il nostro immodesto parere, lo zero quasi assoluto.

DJ Jad & Wlady feat. J-Ax e Pedar – “Troppo sbattimento”: Cafonata dance con innesto rap di dimensione extragalattiche, una roba talmente trash che nemmeno vedere nuovamente accanto i nomi di Dj Jad e J-Ax riesce a dare dignità a questo prodotto buono esclusivamente per accompagnare una serie di chupiti al Papeete Beach.

MamboLosco feat. Tony Effe – “#Si”: Semplicemente imbarazzante. La cosa che ci incuriosisce, senza sconvolgerci, perché di sconvolgente non viene detto né suonato alcunché, che ci chiediamo con veemente fermezza è: ma questi a chi stanno parlando? Ma ci sono davvero dei ragazzini, perché il loro è un pubblico di ragazzini, che si sente rappresentato in versi tipo: “Faccio mangiare un chilo di coca ad una troia/Si sente male, non m’importa/Basta che prendo la mia svolta”? Attenzione, non ci attacchiamo al significato in sé, l’arte deve essere libera, in più il prodotto è talmente scadente che nessuno sano di mente potrebbe mai davvero sentirsi istigato a comportamenti disdicevoli da un brano così privo di credibilità. Ma quando ti esponi, come artista, in qualsiasi arte, evidentemente parli a qualcuno; quando noi avevamo l’età per ascoltare la trap fortunatamente avevamo alternative più valide, pensiamo agli 883, non sarà stato De Andrè ma avevamo un motivo valido per ascoltare canzoni come “Come mai” o “Una canzone d’amore”, spinti come eravamo in ogni nostra mossa dai nostri sacrosanti pruriti preadolescenziali. Ma ai ragazzini davvero importa di queste storie?

Shiva – “Soldi puliti”: Se può risultare interessante l’utilizzo della metrica nella costruzione delle barre, questo rappare quasi meccanico, robotico, freddo; d’altra parte non è più tempo di brani rap che parlano di rivincita sociale, di soldi guadagnati, di seguito, di dominazione della scena italiana. Davvero, basta, che noia!

Federico Rossi – “Ti penso spesso”: Pezzo ai limiti dell’improponibilità, se Federico Rossi non fosse stato il belloccio che è, con ogni probabilità non ne avremmo mai sentito parlare, non staremmo qui costretti a scrivere a proposito di questa mortificazione pop e, sospettiamo, vivremmo anche di conseguenza in un mondo migliore.

Gianni Bismark – “Bravi ragazzi”: Il disco di Gianni Bismark non è solo molto molto bello ma anche molto molto utile per spiegare dei concetti che si fanno sempre più fondamentali riguardo il rap game italiano. Prima di tutto non si può più battere sullo stesso chiodo, servono storie, servono argomenti, servono idee, servono concetti, serve che, papale papale, i brani dicano qualcosa, che dovrebbe essere scontato in realtà, ma non lo è più e non lo è più da tempo. Il che ci porta ad un altro punto: forse sarebbe il caso di ribaltare in maniera significativa ogni definizione perfettamente inquadrata di rap e di cantautorato, una concezione che si deve fare per forza di cose più elastica, altrimenti rischiamo di non capirci niente non solo di quello che sta succedendo ma, cosa assai più grave, di quello che accadrà. È così che si finisce sempre a stare in ritardo sulle cose, non riuscendo ad interpretare i segnali che ci arrivano, a non saper leggere una determinata realtà restando ancorati a preconcetti che, in musica così come nella vita, non fanno altro che fuorviare. “Bravi ragazzi” è il disco di un artista che sta raccontando qualcosa e per farlo decide di utilizzare una tavolozza ricca di colori, di attingere ad ogni possibile declinazione della propria idea di musica, moderna, essendo lui un artista moderno. L’amore raccontato in “Passerà”, accompagnato da Franco126, in maniera così intima, che sa della luce gialla dei lampioni di Trastevere che ti coccolano la notte; “Miti sbagliati”, che ci riporta ai temi della strada, perché è giusto che quella prospettiva non venga mai dispersa, perché è quella la specialità del rap, guardare al mondo dal basso, dalla strada, dalla parte di chi la storia la vive ancor prima di raccontarla; e poi anche l’amicizia in “Dobbiamo andar via”, ma anche in “C’avevo un amico”. Insomma, Gianni Bismark ci disegna il proprio mondo, la propria visione, com’è naturale che sia, vita vera contro i gangster movie ammmericani, cui visione dovrebbero vietare a chiunque sia interessato a fare rap, affinché non si confonda su cosa vuol dire proporsi al mondo come artista e quali responsabilità comporta. Bravissimo.

Tutti Fenomeni – “Privilegio raro”: Niccolò Contessa studia una marcetta quadrata a sostegno di un testo impegnato, interpretato da Tutti Fenomeni con quell’affascinante piattezza monocorde alle quale ci ha abituati. È una canzone d’amore in fin dei conti, ma talmente solenne che ci chiediamo se sia dedicato ad una donna o a un dittatore, o le due cose in questo caso coincidono? Si scherza, brano molto interessante che si aggiunge alla collana di collaborazioni di due che insieme convincono nella loro stravagante poetica.

Elasi feat. Popolous – “XXL”: Elasi e Popolous sono due fenomeni, e questo è indiscutibile. È chiaro che da una loro collaborazione ci si aspettano grandi cose; e questo “XXL” non è un brano brutto, anzi, è realizzato con mestiere e talento, il problema è che sembra vada in due direzioni diverse, sembra tirato per le orecchie da un lato da Elasi, che racconta dell’inseguimento di un sogno, invitando a non mollare nonostante le dimensioni del suddetto, quindi una roba tosta, motivazionale in un certo senso; e dall’altro da Popolous, che ha uno stile ben definito, eccezionale nel creare delle atmosfere ma non troppo incline alle esplosioni. Ma si tratta di un brano al quale un’esplosione servirebbe proprio, invece resta sempre un po’ lì, incastrato in una trama clubbing forse troppo poco incisiva. Tecnicamente ci convince, emotivamente non ci entusiasma. Peccato.

Random – “La ballata dei gusci infranti”: Il miglior brano di Random in assoluto, anzi, il primo brano di Random che riusciamo a definire “brano” senza sospirare tristemente guardando alla collezione di dischi dentro la libreria. “La ballata dei gusci infranti” è stata scritta come colonna sonora dell’omonimo film di Federica Biondi, ispirato ai tragici eventi del terremoto che ha colpito le zone di Amatrice, Norcia e Visso nel 2016, un tema che ha evidentemente fulminato positivamente Random, forse, chissà, dandogli finalmente una ragion d’essere in quanto artista, cosa che, in tutta onestà, senza offesa, finora ci era totalmente sfuggita. Notevole la quantità di immagini che fornisce senza mai cascare in facili cliché, prende in mano un argomento enormemente scottante sotto mille punti di vista diversi e lo tratta con delicatezza e ragionevolezza. Bravo.

Leo Gassmann – “La mia libertà”: Se si ha intenzione di sporcarsi le mani scrivendo una canzone su un tema così generico eppure così delicato come la libertà, non serve solo coraggio ma anche la capacità di andare oltre. Questo nuovo brano di Leo Gassmann è veramente scritto male male male, la poesia viene messa da parte e quella che ascoltiamo è solo un’inutile sequela di didascalie trite e ritrite ai limiti del compito d’italiano di un ragazzino del ginnasio. E si che l’immaturità, purtroppo evidente, incontrovertibile, di Gassmann poteva essere bilanciata dalla collaborazione alla stesura del testo di Giovanni Caccamo, che è uno che le canzoni le saprebbe anche scrivere, ma questo brano, e lo diciamo con dispiacere dato che Leo Gassmann è probabilmente la persona più gentile ed educata a passeggio su questo pianeta, è un disastro pressocché totale.

Post Nebbia – “Cuore semplice”: Una delle band rivelazione dell’ultima stagione dell’indie italiano propone un brano semplicemente meraviglioso. Le venature rock ma quasi ironiche del suonato esaltano, fanno esplodere, in un meraviglioso effetto agrodolce l’invocazione spirituale, affrontata con una poetica maestosa ma totalmente accessibile. Bravissimi.

Alessandro Fiori – “Una sera”: La bellezza antica della canzone italiana, quella che rende epica, maestosa, definitiva, ogni sillaba; quella bellezza sporcata, divorata, dalla musica in tv, dalla musica sui social, dalla musica utilizzata come pretesto e non come fine alto, intellettuale, come in questo caso, come in questo brano assolutamente commovente. E in fondo è un semplice racconto, una serenata sussurrata, semplice, sincera, un uomo che ferma dei momenti della propria vita e sorride pensando alla vita insieme alla propria donna; eppure il risultato è qualcosa di unico, come se stesse raccontando la storia d’amore tra tutte le storie d’amore. Quanto ci mancava Alessandro Fiori, forse non ci sono parole adatte a spiegarlo.

C’Mon Tigre – “Scenario”: Tutto il mondo in un disco. Tutto. Sonorità che provengono dagli spigoli più remoti dell’umanità conosciuta e si rimbalzano addosso indiscriminatamente creando una magia del tutto unica. I C’Mon Tigre, collettivo senza volto e senza nomi, è uno dei più intriganti progetti musicali proposti negli ultimi anni dalla scena italiana; un progetto non per niente adottato all’istante in Francia e Germania, luoghi d’avanguardia per quel che riguarda le nuove sonorità. Una roba a parte, eccezionale, cui ascolto equivale ad un massaggio al cervello; lo “Scenario” che propongono i due è psichedelico, si, ma anche particolarmente romantico, visionario, futurista. Se aprite Spotify e vi rendete conto che l’ultimo pezzo che stavate ascoltando era di Laura Pausini, e non avete una buona scusa per giustificare la cosa (tipo che un commando liberiano minacciava il vostro cucciolo di labrador, non ce ne vengono di più credibili), lasciate perdere, forse non è roba per voi; ma se in voi esiste ancora un barlume di curiosità per tutto ciò che non vi è familiare, allora cliccate play, alzate il volume, chiudete gli occhi. E buon viaggio.

Paolo Vallesi – “Io”/”Noi”: Chi scrive non se l’è mica mai dimenticato Paolo Vallesi e speriamo pure chi legge, perché a distanza di cinque anni dall’ultimo album, oltre 25 ad essere onesti dall’ultimo degno di nota, “Non essere mai grande”, torna con un nuovo doppio disco. Il primo si intitola “Io” e contiene dieci nuove tracce, il secondo si intitola “Noi” ed è un modo per celebrare i trent’anni di carriera rispolverando successi del passato insieme ad amici e colleghi. Si, perché di successi Paolo Vallesi ne ha scritti eccome, esiste tutto un nutrito campionario di bellissime canzoni firmate dal cantautore fiorentino; un viziaccio il suo che non si è mica mai esaurito, anche se la discografia italiana fa presto a spegnerti la luce, infatti in “Io” Vallesi dimostra di possedere ancora quel profondo senso della struttura, di navigare ancora quel mare pop che alle volte sfiora anche l’impegnato. Perché se è vero, ed è innegabilmente vero, che il nuovo disco, senza mai cadere nel ridicolo come accaduto a certi colleghi, tenta di restare aggrappato a sonorità più fresche, la matrice è anni ’90 (fortunatamente?) e anni ’90 (meravigliosamente?) resta. Ma all’interno abbiamo trovato ottimi brani come “Bentornato”, “Meglio di niente” e “Ritrovarsi ancora”, brani che gli sbiasciconi ragazzini del new pop non sarebbero in grado di scrivere nemmeno con un tutor a bacchettargli le manine ogni volta che pronunciano la parola “baby” come se niente fosse. “Noi” chiaramente è la parte più divertente di questo progetto discografico, divertente com’è divertente una festa, le versioni insieme a Gianni Morandi de “La forza della vita”, insieme a Enrico Ruggeri de “Le persone inutili”, insieme a Marco Masini de “Il cielo di Firenze” e insieme ad Amara di “Pace” ci ricordano che parliamo di un cantautore vero che ha scritto canzoni meravigliose e oltre alle citate e alle rispolverate nel disco, ve lo assicuriamo, noi che di lavoro dobbiamo provare a ricordarci tutto, ce ne sono tante, anzi, questo proposito, Paolo, ma “Piramidi di luna”, “La strada del cuore”, “La nave dei folli”?  Noi, comunque, di esserci goduto questo doppio album, di essere stati invitati a questa festa, ne siamo proprio contenti.

Gaudiano – “Oltre le onde”: Gaudiano festeggia l’avvento della primavera con un brano dall’andatura più movimentata e decisamente radiofonico. In “Oltre le onde” si possono notare, forse addirittura ancor più che nella bellissima “Polvere da sparo”, tutte le sfumature di un cantato che è tecnico, preciso, meticoloso. Ottimo.

Serena Brancale – “Je so accussì”: Un disco dall’ascolto piacevole che tocca l’apice certamente nel duetto dancehall con Ghemon “Pessime intenzioni”, ma che un po’ si perde tra inediti e omaggi, in un intento che ci appare quasi forzatamente intellettuale, mentre bastava, brava e preparata com’è la Brancale, che ci si divertisse e basta. Forse non azzeccatissime le tre cover di Pino Daniele, più sensati i brani insieme a Roshelle e Margherita Vicario nei quali si percepisce, pur senza rimanendone purtroppo scalfiti, una sorta di Girl Power; molto divertente invece “Rinascimento”, confezionato con il sempre ottimo Davide Shorty.

J Lord – “No Money More Love”: Disco semplicemente eccellente; J Lord incarna l’anima del rap moderno, o perlomeno quella che dovrebbe essere: piedi ben piantati sulla strada, sguardo che punta in alto, sognando la fuga da una realtà che va raccontata e mai rinnegata, perché senza non sarebbe lo stesso, una cosa che vale per lui, per qualsiasi altro rapper e per qualsiasi altra persona che respira sotto questo cielo. L’invocazione commovente in “The Prayer”, il gioco in “Kark Kani Flow”, sul magnifico beat minimal di Crookers, “Ekip Skit”, in cui il rapper campano si rimastica le parole in bocca, modellandole sulla conformazione della propria idea musicale, e poi ancora la divertentissima “Tiffany”; queste sono solo alcune delle perle che troverete sfogliando un album imperdibile.

Napoleone – “Anna è tornata”: I paragoni nella musica sono inutili, sono più sensati i riferimenti e il primo che ci viene in mente ascoltando la bellissima “Anna è tornata”, manco a dirlo, è Pino Daniele. Questo perché Napoli non è solo neomelodico e rap, Napoli ha un’anima funky che non può in nessun modo prescindere dalla narrazione derivante dalla poetica indiscutibile, indissolubile, della trama che la città e i suoi abitanti e quelle dinamiche uniche, tengono viva. Le atmosfere di Pino Daniele insomma, quelle trascinanti, trasognanti, traslucenti. Un sentimentalismo raro e spiccato, intrinseco nel DNA di un intero popolo, un utilizzo dell’italiano che però poi alla fine, per forza di cose, deve necessariamente sfociare nel dialetto, che è un mondo a parte, un rifugio sicuro per ogni storia da raccontare. Napoleone lo avevamo già conosciuto con “Lacrime a mare”, già ce n’eravamo innamorati, oggi ci da il colpo di grazia.

Le Endrigo – “Un santo, un ricco, un fascio”: Un brano in cui ritroviamo quel punk da vetrina di alta moda de Le Endrigo. Apprezziamo tutto, le chitarre distorte, l’urlato, l’intento politico e sociale che non è mai mancato, anzi, a X-Factor è stato proprio impacchettato e piazzato in primo piano davanti alle telecamere. Il problema, sarà un limite nostro, è che non ci crediamo questo granchè. Il brano comunque è ben confezionato, immaginiamo anche piuttosto divertente suonato dal vivo, ma resta poca roba una volta concluso. Spiace.

Carlo Corallo – “Quando le canzoni finiscono”: Sono poche e anche piuttosto semplici le regole che deve imparare qualsiasi musicista che vuole affrontare questa jungla che è diventata la discografia italiana; forse regola è la parola sbagliata, perché presuppone che a patto di rispettarla poi si ottiene qualcosa, ma questo non è affatto vero per la discografia. Allora diciamo che sono pochi e anche piuttosto semplici i consigli che si possono dare a chi vuole affrontare questa jungla che è diventata la discografia italiana, e uno dei primi che viene in mente è: sii in qualche modo unico. “Eh…grazie al Fazio”, risponderebbe il più simpatico e audace della nidiata, e non avrebbe torto, come si fa ad essere unici in un panorama così enormemente variegato? Avessimo la risposta in mano probabilmente la venderemmo a Tommaso Paradiso e ce ne andremmo in pensione anticipata alle Hawaii per tutta la vita; ma il punto è che poi ci si imbatte in progetti che originali lo sono davvero, che si clicca play e quello che esce dalle cuffie, al netto di ovvi riferimenti e passioni e inclinazioni, non assomiglia a nulla che sia stato pubblicato prima. È il caso di Carlo Corallo per esempio, che fa il rapper ma in realtà ha un’impostazione quasi teatrale, a proposito di riferimenti il primo che ci viene in mente è Simone Cristicchi, chiara, scandita e, ve lo diciamo, sconvolgente nella poetica e nella piacevolezza. Un’onda anomala di parole e immagini e storie che fanno quasi paura, che serve quasi un sospiro prima di affrontarle. Ci stiamo prendendo, noi compresi, la brutta abitudine di utilizzare il termine “cantautorap”, chiaro si, ma piuttosto cacofonico e, ci chiediamo, alla fine dell’ascolto di questo bellissimo album, quanto corretto o meno. Perché il rap alle volte raggiunge apici tali che forse è ingeneroso trattarlo come se diventasse cantautorato nel momento in cui è fatto bene, specie in tempi in cui il cantautorato classico di buono propone poca, ma veramente poca, roba, e il carrozzone discografico è portato avanti, appunto, dai rapper. Corallo con le sue parole spezza in due, va avanti come un treno, fisso, concentrato, quasi distaccato, pochissimo lo spazio lasciato all’interpretazione, è piuttosto un’orgia di parole che ti sfiorano come una carezza e ti intontiscono come un pugno. Non sappiamo cosa ci sia aldilà delle canzoni, cosa succede “Quando le canzoni finiscono”, rifiutiamo da tutta la vita di ritrovarci in quella determinata situazione, ne abbiamo fatto una ragione di vita, addirittura un lavoro, ma sappiamo cosa succede appena finiscono le canzoni di “Quando le canzoni finiscono”: hai voglia di rimetterle daccapo. AGI

 

Redazione Radici

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