Argentina: la colonizzazione della pampa 3.Problemi vari
(Segue agli articoli pubblicati il 25 marzo 2022 e 4 aprile2022)
I marchigiani compresero ben presto che era difficile realizzare nella pampa húmeda un sistema agricolo simile a quello della nostra regione. Ad essi venivano assegnati appezzamenti di terreno dalle caratteristiche del tutto sconosciute, troppo estesi per potervi adattare l’organizzazione della piccola azienda mezzadrile marchigiana.
Il tessuto sociale risentì fortemente di tale configurazione produttiva: gli emigranti non ritrovavano i caratteri del borgo rurale e soffrivano molto l’isolamento delle grandi estancias, cui non erano abituati. Non era poi possibile contare sulla solidarietà dei vicini che costituiva un punto fermo del lavoro rurale nella realtà mezzadrile marchigiana, specialmente nei più importanti momenti del ciclo agricolo (mietitura, raccolta dell’uva e delle olive o macellazione delle carni); ciò permetteva di ottenere prestazioni d’opera ricambiate in seguito nello stesso modo, tanto da integrare la conduzione familiare con manodopera aggiuntiva a costo zero.
Anche le condizioni ambientali creavano loro problemi sconosciuti ed inaspettati: il clima si rivelava difficile, causa la frequenza di calamità naturali come la siccità, le inondazioni, i venti gelidi delle Ande che impoverivano la terra; tutti questi fattori, unitamente a flagelli sconosciuti in Italia (locuste e topi), compromettevano i raccolti con una frequenza quasi triennale, contro l’intervallo calcolato in nove, dieci anni che passava in Italia tra una carestia e l’altra.
Ma proseguiamo con il lavoro: superate le prime fasi, occorreva affrontarne altre; si seminava a giugno e si raccoglieva a dicembre, di norma senza lavoro intermedio.
Per l’aratura e la semina veniva impiegato tutto il nucleo familiare, mentre per la mietitura e la trebbiatura si ricorreva a braccianti ed all’affitto di macchine. In genere il proprietario organizzava da solo il trasporto del raccolto fino alla ferrovia e poi la vendita dello stesso; spesso finiva per essere defraudato di una parte considerevole del guadagno, essendo costretto a disfarsi subito del grano e dei semi di lino, non avendo depositi adeguati per conservarli.
I margini di guadagno erano tanto più alti quanto l’esistenza del colono era improntata ad un basso tenore di vita. Il colono italiano era preferito proprio per questo, perché produceva ad un costo minore, scriveva Luigi Einaudi al riguardo nel libro ‘Il principe mercante. Studio sull’espansione coloniale italiana’ (1900)
Le spese di produzione del frumento per ettaro sono di 24-26 pesos con i contadini italiani e raggiungono i 29-74 pesos con quelli di altre nazionalità. Proprio grazie a queste abitudini di vita così modeste, i contadini italiani riusciranno a diventare i maggiori proprietari dopo gli argentini.
Se calcoliamo il numero degli italiani partiti tra il 1876 e il 1900 (pari a 801.362 unità) ed il numero dei proprietari italiani menzionato da Einaudi al 1900 (62.975), constatiamo che fino a quel momento solo il 7,8% era riuscito nell’impresa.
Padre Nicomede Donzelli, parroco di Camerano (AN) che visse per due anni a Vila (diocesi di Santa Fe) nella prima decade del XX secolo
si soffermò nel suo diario ‘Gli ozi di Vila’ sui sacrifici sopportati da quelli che ce l’hanno fatta:
A Vila ov’io mi trovo, tutti i coloni sono proprietari, e variano tra il possesso di un quadrato di terreno (ettari 133 circa) sino agli 8 quadrati (cioè ettari 1056). Calcolando che oggi il valore del terreno mediocremente preparato è in media da pesos 8.000 a 10.000 m/m, cioè da £. 17.600 a 22.000, si vede il bel capitale che si sono formati alcuni di essi, venuti d’Italia senza neppur 10 lire in tasca.
Tuttavia è necessario riconoscere che a ciò sono giunti tra stenti e fatiche immense. Mandati a dissodare campi, mai tocchi dal ferro, senza case per passare la notte, tra turbe semi-selvagge di indigeni che odiavano i nuovi arrivati, i quali invadevano quelle terre dalle quali senza alcuna fatica traevano il sostentamento col solo bestiame, tra paludi malsane, dalle quali si alzavano miriadi di mosche e zanzare apportatrici di febbri e carbonchio, dovettero per vari anni menare una vita da veri selvaggi. Non medico, non sacerdoti, non strade, non mezzi di trasporto.
A ciò aggiungevano i vari modi con cui erano defraudati impunemente del frutto delle loro penose fatiche:
I pulperi, negozianti di campo, vendevano loro pessime qualità di oggetti a prezzi favolosi, facendo pagare un’usura del 100 per 100 se non potevano sborsarne il prezzo in contanti. Le autorità del campo, ladroni pubblici e autorizzati, imponevano multe enormi per trasgressioni vere o immaginate a leggi ch’essi non conoscevano. Amministratori di terreni, sotto titoli diversi, si prendevano buona parte del reddito dovuto ai coloni. Vendite ingannevoli per le quali il povero colono, dopo avere con sacrifici enormi pagato un pezzo di campo, sul quale sperava vivere indipendente, se ne vedeva scacciato o perché lo scrivano avea sbagliata la scrittura, o chi avea venduta non ne avea il diritto od altri simili furti a nome della legge.
I coloni erano completamente indifesi:
Il meglio che potessero fare era andarsene e tacere. Fosse almeno stata difesa la loro vita! I figli del paese, abituati al furto, rubavano ad essi il bestiame; spesso ancora assalivano la loro capanna uccidendo e saccheggiando. Se il fatto veniva denunziato, il più che le autorità potessero fare era recarsi sul luogo, farsi pagare il tragitto e stendere un rapporto sulla irreperibilità degli assassini. Con tutto ciò i nostri coloni, veri eroi del lavoro non si perdettero d’animo! Edotti dall’esperienza, diffidarono di tutto e di tutti; onde non fu più facile defraudarli nelle compere e vendite; con viaggi di intere settimane si recavano alle lontane città a comprare il bisognevole sfuggendo alle spire dei pulperi che obbligati a vendere solo a quei che non avevano denaro, dovettero cambiar sistema. Si armarono di Vincester di buon calibro e tennero a rispettosa distanza ogni genere di ladroni, compresi gli agenti di polizia.
Si organizzarono facendo venire d’Italia le loro famiglie e provvedevano in casa burro, formaggio, salami, pane e legumi. Poi sopravvennero annate di abbondanza specialmente nel 1890 – 91, poterono pagare i loro campi e accumularsi una buona scorta di denaro. Cominciata la loro fortuna, i più, mantenendosi sobri e lavoratori, la conservarono e l’accrebbero ed ora godono di una comoda posizione. Però è una posizione che ha un lato debole e potrebbe facilmente venir distrutta. Quattro o cinque annate di cattivo raccolto, un’invasione persistente di mangoste per 3 o 4 anni, darebbe fondo alla scorta di denaro che possono avere, diminuirebbe della metà il valore del terreno, e getterebbe i proprietari d’adesso in mano dei banchieri e strozzini, dalle quali non potrebbero uscire che spogli d’ogni loro avere. Ciò conoscono i più intelligenti, onde tengono sempre disponibile una buona scorta in contanti che difficilmente impegnano in negozi sia pure remunerativi, qualora non sia possibile realizzarla facilmente.
Se buona era la situazione economica raggiunta dei proprietari, lasciava molto a desiderare, secondo Donzelli, la loro condizione morale:
Il benessere finanziario ha dato ad essi una certa presunzione che disdice troppo col loro analfabetismo o quasi. Molti hanno dimenticato o trascurato il principio religioso cristiano che domava i loro istinti spesso un po’ brutali, onde si osservano disordini morali gravissimi.
I giovani poi, cresciuti in questo ambiente di corruzione, non avendo neppure il freno che i loro padri hanno portato d’Italia coll’educazione cristiana, minacciano di divenire peggiori.
Molto si potrebbe fare pel loro miglioramento sia materiale che morale; ma ciò è vano sperare da uno stato ove tutto è corruzione e venalità; quindi dovrebbero i coloni cercarlo in sé stessi. Ma chi li guiderà? La guida naturale sarebbe il clero ma purtroppo qui non ha né capacità né voglia.
Anzitutto il colono è diffidente in modo da non credersi, diffidenza giustificata da quanto si è fatto da tutti, preti compresi, per sfruttare i suoi lavori e risparmi.
In secondo luogo i sacerdoti sarebbero incapaci per la loro educazione insufficiente e per la loro posizione sempre precaria. Al miglioramento materiale e morale sarebbe necessario sviluppare nei coloni il sentimento della solidarietà, riunirli in cooperative specie di consumo, e a queste cooperative, ben dirette e sviluppate, unire il compito di formare scuole e collegi per una buona istruzione ed una migliore educazione cristiana, non a base di devozioni più o meno sante, ma a base di principi che informino tutta la loro condotta morale.
Queste cooperative potrebbero provvedere ai soci assistenza medica, farmaceutica e in molti luoghi anche religiosa. Sottratti i coloni all’usura delle case di negozio, educati cristianamente ed istruiti convenientemente alla loro condizione, potrebbero raggiungere uno stato di prosperità veramente invidiabile.
Le chiese e le scuole rappresentarono per i coloni degli autentici lussi al punto che, molti anni dopo il loro arrivo, erano ancora carenti in molte zone.
Nella testimonianza rilasciatami ad Ancona il 10 aprile 2003, Laurita Pergolesi mi raccontava che uno dei suoi zii, don Antonio, aveva assunto una pastorale rurale cui si era dedicato anima e corpo:
La sua pastorale era proprio in aperta campagna. Alla fine della settimana girava ovunque per celebrare la Messa a coloro che abitavano troppo lontano dalla chiesa.
Era un prete molto conosciuto, perché aveva fondato 42 scuole per figli di emigranti nella zona di Santa Fe…Per i contadini il problema più importante da risolvere era la scuola media per i propri figli, perché il governo non sempre si occupava di loro come avrebbe dovuto ed i ragazzi lasciavano la scuola troppo presto… Con la nascita di queste 42 scuole, i bambini poterono studiare e contemporaneamente aiutare i genitori in campagna, cosa molto importante per l’economia familiare. Nella mia famiglia hanno potuto frequentare la scuola media solo mio padre, lo zio Leopoldo e ovviamente lo zio prete…
Ho ricevuto da Ostende il 22 aprile 2003 un’altra importante testimonianza da Inés Lambertucci, figlia di Umberto e nipote di Gelasio Nazzareno, nato a Tolentino nel 1893 e trasferitosi in Argentina quasi ventenne.
A Porteña, Gelasio e la moglie organizzarono dapprima una scuola in una, poi due stanze, nella parte retrostante della propria casa; poi quando questa divenne troppo piccola, decisero di cedere un pezzo di terra in un angolo della fattoria per la costruzione di una vera scuola che ancora funziona.
Si chiama Escuela n. 26, Islas Malvinas e Inés me ne parla commossa:
Ricordo che mi portarono a vedere la fattoria e ad un tratto suonò la campana ed i ragazzi uscirono in ricreazione… I nonni furono i padrini ed i benefattori della scuola, sempre. Questa cosa mi sembra molto importante: erano persone semplici e si erano. sacrificati tutta la vita. Non avevano molta terra, ma trovarono ugualmente lo spazio per accogliere le aule, ebbero la generosità di restituire con qualcosa, ciò che questo Paese aveva tanto dato loro. Non devo considerarli un esempio di vita?
Redazione Radici