Elena Basile: la scrittura è un’arma contro la superficialità 

Elena Basile: la scrittura è un’arma contro la superficialità 
Di Stefania del Monte

Elena Basile è nata a Napoli ma per motivi di lavoro ha vissuto molti anni all’estero. È Ministro Plenipotenziario presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. È stata Ambasciatrice d’Italia in Svezia dal 2013 al 2017 e in Belgio dal 2017 al 2021. Ha esordito come scrittrice nel 1995 con ‘Donne, nient’altro che donne’ libro pubblicato da Il Ventaglio.

Nel 2014, il suo romanzo ‘Una vita altrove ‘(Newton Compton) è risultato finalista al Premio Roma mentre la successiva raccolta di racconti, Miraggi, edita da Castelvecchi nel 2018, è stata tradotta e pubblicata in Belgio.

L’abbiamo raggiunta all’indomani della pubblicazione del suo lavoro più recente e abbiamo avuto modo di scoprire, e apprezzare, una donna di grandissimo spessore culturale, oltre che un’autrice di indiscusso talento.

Ad intervistare la diplomatica è stata Stefania Del Monte per “Ciao Magazine”, rivista online che lei stessa dirige.

D. È appena uscito il suo nuovo romanzo, In famiglia. Ce ne può parlare?

R. È il romanzo a me più caro (tra i cinque libri che ho scritto, se contiamo Lo strano trio, che uscirà con la Lepre nel 2023) e sono felice sia stato pubblicato da La Nave di Teseo. Ha una struttura complessa. Si sviluppa su due piani. Narra da un lato la storia di una famiglia, che si svolge tra Roma e Napoli. Indaga i rapporti inestinguibili, gli affetti insostituibili esistenti tra genitori e figli ma anche le ombre, la competizione, le gelosie che oppongono marito e moglie, fratello e sorella. Gli scenari sono tranquille riunioni familiari borghesi ma serpeggia una minaccia inafferrabile, un vago presentimento di un crimine, di un evento luttuoso che avrà poi il suo momento catalizzatore. Accanto alla storia della famiglia c’è un moltiplicarsi di altre narrazioni in quanto ciascun personaggio narra la sua versione, come percepisce gli affetti, e racconta il suo film. Come aveva intuito Pirandello, la realtà infatti è intraducibile in un’unica storia ed è forse l’incrocio delle visioni personali che si sviluppano in accordo alla nostra psicologia, a stati d’animo elaborati nell’infanzia.

D. Le donne, in questo libro, hanno un ruolo particolare?

R. Le donne – Giovanna la madre, Emanuela la figlia ed anche la nipotina Milena – hanno, è vero, più spazio degli uomini. Malgrado le batoste, malgrado le delusioni non si rassegnano, prendono la vita di petto, nutrono i sentimenti. Milena, la nipotina che nell’ultimo capitolo racconta in modo divertente e impertinente il suo modo di percepire i familiari, raccoglie la lezione e impara a vivere le proprie emozioni lontana da condizionamenti negativi. Il padre Mario ed il figlio Alfredo sono invece tragici e teneri nella loro incapacità di vivere; battono in ritirata.

D. Ci sono altri personaggi di cui ci vuole parlare?

R. Ce ne sono molteplici. Forse la sorella di Giovanna, Annamaria, la ragazza sacrificata dal padre padrone che la obbliga a non studiare, accattiva l’attenzione del lettore. È un personaggio magnetico. È dotata di intuizione ed empatia e avrà come i santi e i poeti una vita breve, speciale. L’amicizia tra le due sorelle è una nota serena che percorre la narrazione.

D. Horace Engdahl, membro dell’Accademia del Nobel, ha definito il suo stile: “Una scrittura che erode ogni falsa certezza e ci conduce lì dove mai ci saremmo aspettati di arrivare”. Si rispecchia, come scrittrice, in questa definizione?

R. Credo che Engdahl si riferisca al fatto che pur raccontando storie che hanno contesti ordinari, di vita di tutti i giorni, scenari casalinghi e borghesi, introduco elementi inquietanti che spingono al dubbio e alle domande.

D. Com’è nata la sua passione per la scrittura e come l’ha coltivata?

R. È stata un’arma, la scrittura: un’arma contro la dispersione, contro la solitudine, contro la superficialità inerente a un lavoro di relazioni pubbliche. Le donne in diplomazia sono una minoranza. Cambiare luogo ogni tre, quattro anni è destabilizzante. Ho creato così un dialogo con me stessa, uno spazio di autenticità.

D. Qual è il suo metodo? Quando inizia un nuovo lavoro, ha già in mente l’intera trama oppure elabora la storia gradualmente?

R. Parto da una percezione, un’emozione, un profumo e poi elaboro.

D. I suoi libri sono autobiografici?

R. Solo nel senso in cui Flaubert affermava “Madame Bovary c’est moi”. Non racconto cose realmente accadute ma certamente le atmosfere, le emozioni che descrivo, sono legate alla mia vita.

D. La figura femminile è centrale nei suoi lavori: Una vita altrove racconta la storia di due donne tra Roma e l‘Africa; Miraggi raccoglie una serie di racconti le cui protagoniste – dal Portogallo all’Ungheria, dalla Svezia al Canada – sono donne accomunate da un’identica attesa di riscatto; In famiglia pone, invece, l’accento su donne forti e fragili allo stesso tempo. La sua è una letteratura al femminile?

R. Non mi piace etichettare la scrittura che deve essere innanzitutto libera. Nel momento storico ed esistenziale che viviamo, credo che le donne siano protagoniste. Esplorare la loro contraddittoria psicologia, la carica umana da esse incarnata credo attiri uno scrittore, ancora di più una scrittrice.

D. La carriera diplomatica l’ha condotta dal Madagascar al Canada, dall’Ungheria al Portogallo, e poi in Svezia e Belgio, dove ha ricoperto l’incarico di Ambasciatrice d’Italia. Cosa ha conservato di ognuno di questi luoghi?

R. “Se leggete Miraggi lo saprete”, potrei rispondere scherzando. Nel libro, in effetti, cerco di esprimere quel che ciascun Paese mi ha lasciato. Il lavoro diplomatico ha un lato meraviglioso. Ci permette di conoscere a fondo il Paese in cui serviamo e che inevitabilmente siamo portati ad amare. A volte anche ad odiare. Come negli amores di Ovidio. Nec tecum nec sine te vivere possum. Né con te, né senza di te… Nascono rapporti di amore-odio col Paese di accreditamento, come quelli che descrivo nel romanzo e che esistono tra i membri di una famiglia come tante.

D. Qual è, invece, il suo rapporto con Napoli, la città dalla ‘bellezza clandestina’ in cui ha scelto di ambientare In famiglia, nonché suo luogo d’origine?

R. Non sono una napoletana verace. Ho scoperto la città quando l’ho abbandonata. È una città “misera e stupenda”, come diceva il poeta. Nel sud c’è qualcosa di primitivo, di autentico, che fa ritornare a scorrere il sangue nelle vene. Vivendo in paesi diversi ed in paesi nordici sono tornata spesso alle mie origini, anche solo col pensiero, per riscoprire l’umanità ed il tepore dei ricordi dell’adolescenza”. 

Redazione Radici

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