Civiltà della guerra o civiltà del lavoro?
Una leggenda diffusa nell’antica Grecia racconta di una gara immaginaria fra i due poeti che erano considerati i più grandi: Omero ed Esiodo.
Si narrava che i due Maestri parteciparono ad un “agone” (una specie di olimpiade nella quale oltre alle varie gare di prestanza fisica si svolgevano anche gare di poesia) indetto dal re dell’Eubea.
Una prima fase della gara prevedeva l’improvvisazione di versi che mettessero in luce l’abilità dei contendenti nell’ottenere una composizione artistica.
Dopo la prova, il pubblico applaudì molto più calorosamente Omero chiedendo così che la vittoria fosse assegnata a lui.
Ma il Giudice della gara chiese di attendere prima di decidere. E dispose un supplemento di prova. Chiese ad ognuno dei due di recitare il brano da lui stesso ritenuto il più bello di quanto aveva scritto.
Omero scelse una scena di combattimento tratta dall’Iliade. Esiodo scelse un passo di “Le opere e i giorni”.
Dopodiché il giudice assegnò la vittoria a Esiodo. E motivò così la sua decisione: “Merita il premio colui che dà valore alla pace, al lavoro e alla concordia fra gli uomini e non colui che eccitando gli animi con crudeli immagini di guerra spinge gli uomini all’odio e alla discordia che procurano a tutti solo atroci sofferenze e morte.”
La leggenda dimostra che già 600 anni prima di Cristo era del tutto chiara l’idea che nel convivere umano che chiamiamo “civile” l’unico valore è quello del lavoro. Ragion per cui una composizione letteraria non può mai essere apprezzata quando attribuisce un qualche valore alla guerra.
La leggenda ci pone di fronte a un interrogativo piuttosto imbarazzante.
Come mai se già 2600 anni fa si pensava che Esiodo fosse un maestro di vita superiore a Omero la fama di Omero è sempre stata nella storia molto più alta di quella di Esiodo?
I poemi di Omero, Iliade e Odissea, sono da sempre materia di studio nelle scuole primarie in Italia e probabilmente nelle scuole europee (e in quelle influenzate dalla cultura europea) mentre Esiodo è un poeta sconosciuto e anche i testi di letteratura del liceo classico gli dedicano sì e no una pagina?
O in altre parole. Come mai il tema della guerra ha un fascino così alto nelle menti degli scrittori e degli esseri umani in genere tanto da trovare sempre nelle opere letterarie un posto preferenziale rispetto al tema del lavoro?
L’interrogativo ci viene riproposto dall’esame dell’opera del più famoso dei poeti latini, Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), noto, proprio per la sua enorme fama, col solo nome di Virgilio.
Sappiamo che le principali opere del Poeta sono le Bucoliche, le Georgiche, l’Eneide. Che hanno per tema rispettivamente: la vita dei pastori; la vita degli agricoltori, le avventure di Enea.
Osserviamo. Le prime due opere, che parlano del lavoro della pastorizia e dell’agricoltura, raramente trovano spazio nei programmi scolastici. La terza invece è praticamente l’unica che viene letta e studiata. E, a ben guardare, è solo per essa che Virgilio è diventato famoso. Il tema di quest’ultima è costituito fondamentalmente dalle guerre che l’eroe, fuggito da Troia, deve combattere, dopo essere arrivato profugo nel Lazio, per creare le condizioni per la nascita di Roma.
La storia della letteratura ci informa che Virgilio era soddisfatto delle Bucoliche e delle Georgiche e riteneva che esse fossero sufficienti a garantirgli imperitura fama di poeta. Pensava invece che l’Eneide non fosse ancora perfezionata e avesse bisogno di ulteriore lavoro di correzione e ricomposizione. Nel suo testamento dispose quindi che il manoscritto dell’Eneide fosse distrutto. Sappiamo che Ottaviano Augusto, il fondatore dell’Impero Romano, pose il veto all’attuazione di questa disposizione testamentaria. E ordinò che l’opera fosse “pubblicata” ovviamente con i mezzi dell’epoca.
Augusto, come capivano tutti già all’epoca, non poteva permettere la distruzione dell’Eneide. Egli stesso infatti l’aveva commissionata a Virgilio. Egli voleva che in un poema scritto in latino, e capace di rivaleggiare con i poemi omerici, si celebrassero le mitiche e divine origini di Roma e della gens Julia. Voleva soprattutto che il poema fosse la celebrazione del nuovo ordine del mondo instaurato dalle sue imprese vittoriose. Lo strumento per la sua apoteosi: la divinizzazione della sua memoria presso i posteri.
Resta comunque il fatto che l’Eneide, poema di guerra, rimase nei secoli l’opera che consacrò, assieme alla fama di Ottaviano Augusto, la fama di Virgilio, mentre le Bucoliche e le Georgiche che volevano mettere in risalto la civiltà del lavoro, e nello stesso tempo lanciare un messaggio fermo e accorato contro la crudeltà e la stoltezza della guerra, sono rimaste pressoché sconosciute.
A questo punto dovremmo iniziare un discorso molto lungo sulla “natura” degli esseri umani i quali mostrano di sentire per la letteratura che ha come tema la guerra, un’attrazione molto più forte che per la letteratura che ha per tema il lavoro. O in altre parole provano un’attrazione più forte per una convivenza nella quale prevalgono l’odio, la discordia, la guerra, la morte che non per una convivenza fondata sul rispetto, sulla concordia, sul lavoro, sulla vita. L’unica forma di convivenza quest’ultima che meriti (almeno secondo Esiodo e Virgilio) la definizione di civiltà.
Giorgio Pizzol