Storia di Ljudmila detta Ljuda, miglior cecchino d’Ucraina
Ljudmila Pavlichenko, migliore tiratrice dell’Armata Rossa che oggi probabilmente combatterebbe sullo stesso fronte ma sotto altra bandiera, visto che era nata a Bila Cerkva, un pugno di chilometri fuori Kiev
Lei, Ljudmila detta Ljuda, qualche mese prima del tracollo aveva finito gli esami del quarto anno di Storia all’Università di Kiev e, siccome era un tipo sveglio oltre che dotato di un fisico resistente e non irrilevante, l’avevano spedita a Odessa con una borsa di studio, a fare le ricerche per la tesi. Mise da parte i libri e si presentò all’ufficio reclutamento forte dei suoi 25 anni, di diottrie degne di un falco e soprattutto del suo attestato di tiratore scelto: glielo aveva rilasciato l’Osoaviachim di Kiev, l’istituto che sfornava i tiratori migliori pescati in quelle che all’epoca erano Tutte le Russie.
Fu una delusione: se l’Armata Rossa oggi è quella sentina di nonnismi e violazioni dei diritti delle reclute che raccontava Anna Politkovskaja prima di essere ammazzata, figuriamoci se all’epoca non dilagava anche il sessismo. Risate e battute da caserma. Alla fine la presero, ma non fu cosa facile. Anzi, più che il riconoscimento della capacità di tiro, alla fine, valse la situazione disperata sul campo. E di situazione veramente disperata, nell’estate e nell’autunno del ’41, si trattava.
I luoghi sono quelli, i tempi no. Ma la storia sì, quella pare scolpita nel passato per essere riletta adesso che, per l’appunto, i luoghi sono quelli. E se una volta l’Agnese andò alla guerra, e prese il fucile, Ljudmila il fucile in mano l’aveva sempre avuto. Qualcuno che aveva osato avvicinarsi troppo alla sua Ucraina ne pagò le conseguenze.
Questo il contesto storico e bellico che fa da cornice alla storia di Ljudmila Pavlichenko, la migliore tiratrice dell’Armata Rossa che oggi probabilmente combatterebbe sullo stesso fronte ma sotto altra bandiera, visto che era nata a Bila Cerkva, un pugno di chilometri fuori Kiev.
Ma allora Kiev era Unione Sovietica, e questo – si diceva – è il contesto storico. Nel giugno 1941, in omaggio al Barbarossa che ben poco guardava a Est ma ugualmente gli fu dedicata questa particolare Operazione militare speciale, la Romania affiancò la Germania nazista nell’attacco all’Urss e partì alla conquista del Mar Nero. Caddero i porti piu’ importanti: Odessa, Novorossijisk, Nikolaev e Sebastopoli. Quest’ultima finì rasa al suolo come lo era stata quasi un secolo prima, ed oggi lo è Mariupol. Però prima resistette un anno circa e la cosa ha, in questo racconto, la sua importanza.
Presa e spedita in prima linea, come lei stessa aveva chiesto, sparava e uccideva, ma anche vedeva e scriveva. Alcune pagine dei suoi appunti (come ogni storica in erba era affascinata dalla Storia in fieri) oggi fanno paura, a rileggerle: “Gli abusi crudeli dei vincitori su mogli, sorelle e figlie dei vinti e una tradizione che risale alle tribu primitive. Le donne erano considerate alla stregua di bottino di guerra e il destino che le attendeva era tutto fuorche invidiabile. Avevo letto di queste atrocita nei resoconti storici, ma non pensavo che la cosiddetta ‘Europa civilizzata’ avrebbe portato questa barbara usanza nella nostra terra”.
No, le novità sotto il Sole d’Ucraina sono davvero poche. Lasciata Odessa ormai in mano ai nazisti (ma intanto aveva seccato 147 romeni loro alleati), fu messa alla difesa di Sebastopoli. Puntava, mirava, sparava. Dopo cinque minuti mirava, puntava, sparava. Cadevano di fronte a lei, o meglio nella sua visuale, quei tedeschi che a Sebastopoli non si erano fatti vedere nemmeno ai tempi della Guerra di Crimea. Crebbe la sua fama come crescevano le tacche sul manico del fucile, mentre il caricatore si esauriva senza fermarsi.
Si esauriva, ma mai del tutto. Avrebbe ricordato anni dopo: “Né i russi né tantomeno i tedeschi, prendevano prigionieri i cecchini. Li facevano fuori sul posto. Per le donne esisteva una variante: lo stupro di gruppo. Pertanto, facevi rotolare la granata ai piedi del nemico, sparavi sette proiettili a chi si avvicinava troppo ma tenevi l’ottavo per te”.
Di donne come lei, nell’Armata Rossa, ce n’erano circa duemila. Lei però era la più micidiale: i colpi a segno superarono intanto i 250, a Sebastopoli, e questa volta erano tutti tedeschi. Certo, da sola non riuscì a bloccare il Barbarossa, ma aiutò non poco a rendere la vita impossibile ai suoi armigeri.
Ad ogni modo, alla fine dovette sgomberare: non aveva ancora preso forma la sacca a Stalingrado. Seguì di qualche mese il ritiro dal fronte, causa non un cecchino avversario, ma un cieco colpo di mortaio: di quelli lanciati senza mirino, alla dove va va. È il destino degli eccellenti: c’è sempre un mediocre che alla fine ti mette fuori combattimento. Ma il mediocre non arriverà mai a fare 380 volte centro, si appagherà l’ego con il fatto di averti tolto di mezzo, e nascondere così la propria mediocrità che altrimenti risalterebbe agli occhi dei più.
Una volta fuori dell’ospedale, presentarono a Ljuda i suoi 26 anni ed una proposta, a girare l’America: il contesto storico allora prevedeva ci fosse un’alleanza. E Ljuda, forte del fatto che aveva ammazzato più nazisti lei che bisonti Buffalo Bill, accettò di far ingresso alla Casa Bianca ricevuta da Roosevelt. Non era sola, in quell’occasione. Con lei c’ea anche il compagno d’armi Vladimir Pcelincev, anche lui tiratore sceltissmo.
“In quel momento”, avrebbe ricordato, “ci scambiammo sguardi non troppo amichevoli. Nel 1942, per i cento crucchi che aveva fatto fuori sul fronte di Leningrado, Vladimir era diventato il primo cecchino dell’Urss a ricevere il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica. Io, nell’autunno del 1941, per i cento rumeni ammazzati nei dintorni di Odessa, avevo ricevuto un svt-40 con dedica. Lui, in dodici mesi di servizio, era stato promosso tre volte: sottotenente, tenente e primo tenente, mentre ora il suo bottino ammontava a 154 fascisti. Io, che prestavo servizio dal giugno dell’anno precedente e avevo 309 nazisti morti in conto, avevo ottenuto solo il grado di sottotenente dal benevolo Ivan Efimovic”.
Ci sono cose che sono più dure a morire persino di un nazista, nelle file dell’Armata Rossa. Tornata in patria, e sfilata ad ogni 9 Maggio davanti alle mura del Cremlino, Ljuda visse da quel momento la vita dell’eroina a riposo. Almeno potè riaprire i libri di storia. Li chiuse solo quando chiuse anche quegli occhi che avevano scatenato, nel breve arco di un anno e mezzo, quasi quattrocento lampi di morte.
Era il 1974, ed il contesto storico prevedeva la Distensione con gli Usa ma, contemporaneamente, il dispiego di nascosto degli euromissili. Quelle armi nucleari, cioè, che parevano aver privato di senso l’arte del cecchino di far la guerra in Russia. Invece non era così: il cecchino sarebbe tornato ad essere se stesso, con tutto l’orrore del suo mestiere, a Sarajevo come a Falluja. E viene da pensare che, anche se i tempi non sono più quelli, i luoghi sì, non sono cambiati. E la storia di Ljuda, storica prestata alla carneficina, può riprendere tra Dnepro e Marupol: da un momento all’altro.
AGI