La lingua degli italiani d’Argentina
Durante il periodo della grande emigrazione (1880 -1910) la popolazione argentina era passata da 2 milioni a 4 milioni di abitanti, per metà residenti a Buenos Aires. La capitale era diventata in breve tempo una Babele linguistica: le vie cittadine erano animate dal genovese (o meglio dallo Zeneixe, portato dai marinai genovesi ancora prima del Risorgimento) e da tante altre parlate.
La lingua usata dai primi connazionali non era certamente l’italiano ma un insieme di dialetti molto diversi tra loro (dai galli-italici a quelli meridionali) che spesso non permettevano alcuna comunicazione interpersonale.
Cercando di conversare con calabresi, siciliani e napoletani (ma soprattutto con i nativi argentini), veneti, liguri e piemontesi iniziarono a mescolare termini di origine dialettale con lo spagnolo, inventando ‘parole prima inesistenti, ma dal momento in cui le pronunciavano per la prima volta erano comprensibili da tutti, italiani e non. Furono […] gli inventori inconsapevoli di un nuovo e singolare idioma degli italiani in Argentina, il cocoliche, commenta Sabatino Alfonso Annecchiarico, giornalista, docente e ricercatore italo-argentino.
Tra le forme teatrali rioplatensi, il sainete (in genere di un solo atto, con proprie caratteristiche comiche, personaggi e ambientazioni popolari rappresentati in modo realistico, che offre una testimonianza di come vivevano le classi basse in una determinata società) contribuì ad inserire il cocoliche nello spettacolo: qui, a partire dalla realtà dell’immigrazione, venne creato un personaggio teatrale, il tano (aferesi di napolitano che in seguito si riferirà all’emigrante italiano in generale), il quale andò a costituire uno degli assi portanti del teatro popolare.
Contemporaneamente al cocoliche, nei conventillos (case collettive, nelle quali molte famiglie condividevano gli spazi) si sviluppò un’altra forma linguistica, il lunfardo. Questi due fenomeni erano strettamente imparentati (giacché condividevano l’origine nella lingua dell’emigrante) ma mentre il primo nacque per una necessità comunicativa degli immigrati, il secondo sorse dagli ispanofoni con lo scopo di deformare le parole degli stranieri in modo ludico.
Per molto tempo si considerò questo fenomeno come un lessico associato alla criminalità. Questo per due ragioni: l’origine del nome- che secondo il professor Amaro Villanueva, fondatore dell’Accademia Porteña del Lunfardo– deriva dal romanesco lombardo che significa ladro e il fatto che i primi studiosi di questa parlata fossero criminologi o poliziotti.
Un elemento complementare del lunfardo è il vesre, ossia la pronuncia delle parole cambiando l’ordine delle sillabe: marito (marido) diventa dorima; gatto (gato) toga; calore (calor) lorca e rovescio (revès) diventa vesre.
A differenza del cocoliche (che venne usato solo nel periodo dell’immigrazione) il lunfardo è sopravvissuto fino ad oggi ed è possibile sentirlo pronunciare da qualsiasi cittadino argentino. E’ normalissimo sedersi in un ristorante e chiedere un troli de novi: il cameriere non farà una piega e tornerà infallibilmente con un bel…litro di vino!
Il lunfardo è ritenuto un fenomeno linguistico unico, perché il suo vocabolario è costituito da termini presi in prestito da varie lingue: spagnolo (da cui acquisì alcune parole che vengono usate con significato diverso), francese (franela, macró), calò (gil, pirobar), termini africani portati dagli schiavi (fulo, quilombo), lusismi (chumbo, tamangos), anglicismi (espiche, naife), parole derivanti dal polacco (papirusa), quechua (pucho, cache), nahuatl (camote, pilcha), guaraní (matete).
L’italiano fa la parte del leone: secondo quanto scrive Mario Teruggi nel suo Panorama del lunfardo, vanta circa duemila italianismi, comprese tutte le voci gastronomiche (ravioles, espagueti, mortadela, canelón, ñoquis, pizza, agnolotti, grisini, risotto, amaretti, salame).
Ecco alcuni esempi:
–afilar: deriva da filare, corteggiare (in spagnolo cortejar)
–atenti!: deriva da attenti! (in spagnolo cuidado, atención )
–bachica: deriva da ciccia (sostantivo e aggettivo che significa molto goloso)
–capo: deriva dall’omonimo italiano (in spagnolo jefe)
–chau: deriva da ciao (in spagnolo adiós!, hasta pronto, hasta luego, usato, però solo per commiato)
–chuca: deriva da ciucca, sbornia (in spagnolo borrachera)
–crepar: deriva da crepare (espressione più forte dello spagnolo morir)
–esquifoso: deriva da schifoso (in spagnolo asqueroso)
–fachatosta: deriva da facciatosta (in spagnolo caradura)
–fiaca: deriva da fiacca (in spagnolo pereza)
-laburo: deriva da laburar (in spagnolo trabajar), adattamento dal dialetto del nord Italia lavurer, lavurar che trova la sua origine dall’italiano lavorare
-mufa: deriva da muffa (in spagnolo moho). A Buenos Aires si usa per designare uno stato d’animo nel quale l’anima si ricopre di muffa
–pasticho: deriva da pasticcio, per estensione imbroglio o confusione
–pelandrún: viene dalla forma dialettale italiana pelandrone (sfaticato in italiano, haragán in spagnolo)
-secar, estufar, escochar: derivano da seccare, stufare e scocciare con lo stesso significato
–yiro: deriva da giro, girare (in italiano girare, deambulare per strada). Come sostantivo, esclusivamente al maschile, si utilizza per designare le prostitute, soprattutto da quando mina (da femmina), perse il suo significato originale e acquistò il significato di moglie in generale.
La parola pibe deriva dal genovese e significa apprendista (designa la figura del ragazzo che lavora sotto l’egida di un artigiano o un commerciante). Il termine era completamente sconosciuto in Italia fuori della Liguria (in realtà l’avevano dimenticata anche lì) fino a che entrò in Argentina attraverso il linguaggio calcistico: pibe de oro, riferito a Maradona)
Alcune parole italiane, poi, hanno assunto un significato diverso da quello originario: pulenta, oltre ad indicare l’omonimo piatto, indica potenza e vigore; chipola è affibbiato ad una bella persona; dar el pesto, significa colpire coi pugni.
Se l’origine del lunfardo si deve al compadrito (giovane creolo delle classi popolari che, in modo ludico, si appropriò dei termini degli immigrati e si mise ad imitarli nella sua parlata) la sua diffusione -come la nascita di un linguaggio letterario- fu merito di giornalisti, autori di sainetes e folletinos, poeti lunfardi e soprattutto compositori di letras de tango.
Il lunfardo arrivò in teatro nel 1889 allorché Miguel Ocampo pubblicò la zarzuela ‘De paso por aquí’ in cui il personaggio, un ladro, si esprime con parole lunfarde, mentre uno dei primi tanghi in cui furono usate queste parole si intitola Mi noche triste (1916) ed è opera di Pascual Contursi.
All’inizio non esisteva il tango cantato, dato che il ballo nacque come melodia e poi si convertì in canzone, fino a diventare, nei lupanari del porto, poesia recitata e cantata.
Paola Cecchini