I distretti rurali di Santa Fe
Diamo la parola ai marchigiani dei distretti rurali di Santa Fe.
(Testimonianze rilasciate il 2 marzo 2003).
Mi raccontano del lavoro, da sempre basilare nella loro vita, al punto da decidere di tornare in Italia o trasferirsi in altro luogo appena mancava o era poco retribuito. Hanno lavorato in campagna dalla mattina alla sera, tutti i giorni dell’anno e per tanti anni, ma tutti concordano nel ritenere il lavoro nella pampa più leggero di quello che avevano svolto in Italia.
Conoscono la terra da sempre, fin dalla nascita; fin da piccoli ne conoscevano la fatica, ma la rispettavano perché sapevano che solo attraverso di essa avrebbero potuto costruito il proprio futuro.
Il rispetto ancestrale per il più forte impedì loro molte volte di protestare allorché il raccolto veniva comprato a basso prezzo da intermediari (I conti non erano mai corretti, uno zero mangia un altro zero..) o dalla Federazione Agraria che – nata a seguito dello sciopero di Alcorta per proteggere i coloni dai soprusi dei proprietari – si comportava spesso in tutt’altro modo (I padroni e la Federazione si mettevano spesso d’accordo). Ma, a conti fatti stavamo comunque meglio qui, mangiavamo carne tutti i giorni, sostengono decisi.
L’infanzia in Italia è ricordata come un periodo di responsabilità premature, anche se era normale ai quei tempi, perché ero la maggiore e i bambini dovevano aiutare, come riferisce Isolina P. di Porto Recanati (Casilda):
‘Mio padre e mia madre lavoravano nei campi ed io dovevo badare agli animali. Là gli animali erano molto curati e si mettevano al coperto, qua si lasciano all’aperto…Là era diverso. Andavo a scuola d’inverno, con la neve così alta, era tanto freddo. Per andare a scuola seguivo un sentiero fatto dai cacciatori. Quando era tempo di lavoro non mi mandavano più, non potevo andare, dovevo aiutarli, sono andata a scuola fino alla seconda elementare’.
Si lavorava molto da piccoli, concorda Assunta G. di Chigiano (Las Rosas):
‘Da bambina la vita era molto triste, molto triste, però ci si doveva accontentare; io ero la maggiore di otto fratelli e siccome ero la maggiore, mi mandavano in montagna per accudire le pecore; avevamo trenta pecore e dovevo guardarle. La montagna non era come qua, avevo paura, paura delle vipere, c’erano molte vipere. E io avevo molta paura, c’era come un monte, in basso c’era l’acqua per le pecore…e io avevo otto anni…’
Quasi tutti indicano la guerra come la causa principale della partenza, più delle difficoltà economiche. Nonostante non abbiano condiviso l’ideologia fascista, sostengono che i soprusi al tempo erano soprattutto opera di attivisti di altre aree politiche:
‘Quando arrivarono i tedeschi a Esanatoglia, fecero un disastro. Arrivarono con tanta rabbia e quando si ritirarono fecero di tutto’- racconta Pierina L. (Carlos Pellegrini).
‘A Tolentino, al mio paese, uccisero ventisette ragazzi, tutti giovani, tutti amici miei…li uccisero i tedeschi, aiutati dai fascisti che non erano del paese… Li uccisero a mitragliate, nella strada della montagna e in piazza San Francesco. Io ero bambina ma mi ricordo, mi ricordo…’
ricorda Anna G. che ora vive a Carcarañá.
Grande deve esser stata la confusione creata dalla fuga dei tedeschi e l’arrivo degli alleati; tutto si confonde, talvolta è difficile anche proseguire il racconto:
‘E quando finì la guerra, arrivarono tutti, non ci si capiva più niente, alcuni correvano là, altri qua…i polacchi, i russi, gli inglesi, i negri…i negri erano nord – americani e il comandante li teneva sotto controllo…i polacchi e gli inglesi erano sempre ubriachi…non ci si capiva più niente. I fascisti se ne andarono ed i partigiani, in piazza, tagliarono i capelli alle donne che erano andate con i tedeschi. Mio Dio! La mia maestra era sposa di un tedesco e morì dalla vergogna, perché la pelarono…Povera donna!’ – ricorda Elisa F. di Macerata (Santa Teresa).
L’autorità paterna era pressante nei confronti delle ragazze che dovevano essere protette da tutti i rischi derivanti dalla trasgressione sessuale. Questo atteggiamento era tipico di tutti i marchigiani, indipendentemente dal flusso migratorio al quale presero parte.
I matrimoni erano decisi dagli uomini di casa durante le partite a tresette, a sette e mezzo, a scopa o al truco.
Racconta Angela P. di Reggiano (El Trébol) : ‘Le figlie dovevano accettare le scelte paterne…non mi rimaneva altra via d’uscita, altrimenti sarei rimasta zitella…D’altra parte i padri sceglievano sempre bene, ti sistemavano con un compaesano. Una volta si faceva caso a chi si doveva sposare… sia per quanto riguarda le donne che gli uomini’.
Nessuno degli uomini intervistati ha mai preso in considerazione la possibilità di sposare un’argentina:
‘Un’argentina? Un’argentina argentina? No, no, che bisogna c’era? E poi se si faceva così si perdeva la razza! Qui vivevamo come se fossimo nel nostro paese e c’erano molte donne compaesane o figlie di compaesani, pulite, lavoratrici e forti e se non le trovavamo le mandavamo a chiamare e ce le sposavamo senza problemi’ – spiega Gino T. di Chigiano (Casilda).
Fu difficile per tutti loro comprendere i criollos, così diversi dai marchigiani per cultura e tradizioni; questi vivevano alla giornata, amavano vivere in libertà, spostarsi, conoscere altri orizzonti, mentre la coltivazione della terra costituiva un legame indissolubile.
‘I creoli sono gente che si adatta facilmente alla presenza straniera…Non ci dettero grossi problemi. Mi chiamavano “polentone” e “gringo”, perché a casa mia nei primi cinque anni si mangiava solo polenta, polenta a pranzo e a cena, perché volevamo comprare un campo’ – racconta Vincenzo M. di Camerino (Carlos Pellegrini).
E’ molto critico nei loro confronti Silvano O. di Castelfidardo (Carcarañá):
‘I creoli sono poco attivi, rissosi…stanno sempre a preparare il mate e a far figli…Non importa se poi non hanno di che sfamarli…continuano a far figli e alla fine li mandano a chiedere l’elemosina’.
La sua opinione è condivisa da Santo P. di Potenza Picena (San Jorge):
‘Sono inconcludenti, attaccabrighe. Vivono in capanne di paglia e fango, senza comodità. Non so che cosa hanno in testa. Ed in città vivono in misere case di cartone ed alluminio… Non hanno una casa, non hanno da mangiare, ma hanno la televisione, ah, questo sì. Hanno tutti la televisione, sissignore. Se fossi il Governo li manderei tutti a lavorare’.
Più diplomatico è Mario T. di Cingoli (Carlos Pellegrini):
‘Cosa vuole che le dica dei creoli? Loro badavano alle loro cose e io alle mie! Sa cosa si dice al mio paese? “Lascia stare il can che dorme”. Io li vedevo e cambiavo strada. Quando dovevamo stare assieme durante il raccolto, per esempio, se il padrone li aveva assunti, io cercavo la compagnia dei compaesani. Primo perché i creoli non mi capivano e poi perché mio padre mi diceva sempre: “Dico vabbù a chi mi dà lo pà”
Il più comprensivo è senz’altro Basilio C. di Montecosaro (Las Rosas):
‘Guardi, il creolo non è cattivo, non è male…io credo semplicemente che sia diverso. La felicità del creolo è diversa da quella dell’italiano. L’italiano se non ha una casa, se non ha l’automobile, sta male e così passa tutta la vita in funzione della casa e del lavoro. Il creolo non ha queste pretese: ha una capanna, l’ombra di un albero, il cavallo sellato, il mate, il churrasquito alla griglia e questo gli basta, è felice, questa è la loro felicità’.
Pochi tra gli intervistati hanno fatto ricorso alle società di mutuo soccorso, come spiega Bruno B. di Tolentino (Santa Teresa):
‘Se vivevamo in un’area rurale, raggiungere il luogo in cui si riunivano era difficile e comportava perdite di tempo; se vivevamo in città, non avevamo bisogno dei servizi che offriva, oltre al fatto che erano sempre gli stessi a comandare, gli italiani più ricchi. E uno quando diventa ricco dimentica la sua terra, dimentica i compaesani’.
La politica non ha rivestito un ruolo importante nella loro vita, anche perché spesso si è rivelata una delusione:
‘Io sono peronista, ma peronista peronista, come il dottor Domingo Perón, poi mi disillusi vedendo che i peronisti erano pagliacci, molta politica per andare al potere e poi sceglievano quello che gli fa comodo. Con Menem sembrava riuscissero a seguire effettivamente la strada di Perón…beh, all’inizio sembrava così, poi dopo cinque o sei mesi…beh, sono cose che non si dicono…dicono, promettono e poi rimischiano le carte’ – commenta Basilio C.
Nessuno di loro ha mai preso la cittadinanza argentina, considerata al pari della rinuncia alla patria e alla bandiera:
‘Mi dissero di iscrivermi al partito per continuare a lavorare. Nossignore! Presi tutto ciò che potevo e me ne andai. Non posso tradire la mia bandiera, ho una sola bandiera io!’ – dice Gino T.
Quest’opinione è condivisa da tutti:
‘Mi piace l’Argentina, voglio bene a tutti, ma il mio Paese è il mio Paese!’ –sostiene Santo P.
Gli fa eco Silvano O.:
‘Non ne avevamo bisogno…Noi lavoravamo i campi e quindi a che pro dovevo farmi argentino?’
Forte fu in tutti loro la volontà di integrarsi dal punto di vista linguistico, perché tutti ricordano le beffe subite per la scarsa padronanza del castigliano. Decisero così di proteggere i figli proibendo loro di parlare italiano in casa.
La lingua natale compare solo nelle riunioni tra compaesani o nei litigi:
‘Non ho mai parlato né in italiano né in dialetto ai miei figli. No! Perché poi a scuola li portano in giro. Così è meglio parlare spagnolo’- dice Isolina P.
‘Con i miei figli? No, mai. Con i compaesani qualche volta. Parlo il dialetto, ma conosco abbastanza bene l’italiano. Mio padre quando ero bambina, mi parlava in italiano. Poi a sette, otto anni sono andata a scuola e me lo sono dimenticata’ – racconta Angela P.
‘No, non volli insegnargli l’italiano anche se lo conoscevo abbastanza. Perché? Perché non volevo che soffrissero come avevo sofferto io’ –conclude Mario T.
Paola Cecchini