Il cinema europeo guarda oltre “fare un film capace di arrivare al cuore di chi lo guarda”
Dario Patruno
Un giovane regista si racconta. Sto parlando di Mathieu Volpe, classe 1990, di padre italiano e madre belga, nato a Roma e cresciuto a Bari, a diciannove anni si trasferisce a Bruxelles per studiare regia all’Institut des arts de diffusion a Louvain-la-Neuve. Il suo cortometraggio di diploma, Il segreto del serpente (2014), viene selezionato dai diversi festival cinematografici, come il Torino Film Festival, Filmer à tout prix, Lussas anda Huesca. A Visioni Italiane è in concorso il suo secondo cortometraggio, Notre Territoire, che ha avuto nomination a festival italiani e internazionali come il Locarno International Film Festival, il Torino Film Festival, Brussels Short Film Festival e ha vinto il premio principale al Festival International Signes de Nuit.
Come nasce la tua vocazione al cinema e perché hai scelto la regia?
Sono nato e cresciuto in una famiglia dove il cinema è sempre stato un centro d’interesse molto presente. Ho un vago ricordo di una proiezione di un film di Eric Rohmer, Il ginocchio di Claire, quando avevo 7 anni, ma non so se è davvero successo o se è un aneddoto inventato dai miei genitori. Penso che questo interesse sia dovuto al fatto che, quando era adolescente, mio padre volesse diventare regista, ma che la vita lo abbia portato su altre strade. In un certo senso, mi sono costruito su quello che era il suo sogno e credo che questo lo renda davvero molto fiero.
Quali sono le differenze e le assonanze tra cinema italiano e belga?
Forse, quello che differenzia il cinema belga da quello italiano è un senso dell’umorismo davvero particolare, che a volte flirta con l’humour nero. La poesia è invece quello che per me rende unico anche il cinema più politicamente impegnato italiano, da Pasolini a Bellocchio. Ma in fin dei conti, direi che in entrambi c’è una forte vocazione sociale. Ho l’impressione, in effetti, che in Belgio come in Italia il cinema si posizioni spesso dalla parte degli ultimi e che questa sia la loro forza.
Quali consideri un maestro del cinema italiano?
Un cineasta abbastanza poco conosciuto, ma che ammiro molto è Vittorio De Seta. I suoi cortometraggi documentari in bianco e nero ambientati nella Sicilia e nella Sardegna degli anni 50 sono di una forza formale ineguagliabile. Per quanto riguarda le “maestre” del cinema italiano, invece, penso si possa mettere su un piedestallo Alice Rohrwacher, sorella di Alba, che per me rappresenta una delle voci più singolari del nostro cinema, tra realismo magico e impegno politico.
E del cinema belga?
Ovviamente non posso non citare i fratelli Dardenne. Mia madre, belga immigrata in Italia, mi portò a vedere Rosetta al cinema quando avevo nove anni. Non capii tutto, ma ricordo ancora in modo molto chiaro alcune immagini del film. Fu come vedere la “vita reale” catturata dall’obiettivo della loro camera… Non so fino a che punto il loro stile mi abbia marcato, ma sono sicuro che non sia un caso aver cominciato la mia carriera facendo documentari. Insieme a loro, poi, un’altra grande del cinema belga è Chantal Akerman, della cui filmografia non ho visto molto, ma di cui mi rimane Jeanne Dielman, per la sua utilizzazione del piano sequenza come strumento per dilatare il tempo.
Qual è l’attore e l’attrice che ti piacerebbe dirigere in un film?
Per ora, lavoro soprattutto con attori o attrici non-professionisti. Quindi, per me, è importante trovare delle persone il cui percorso sia in qualche modo connesso alla storia che voglio raccontare. Se un giorno però dovessi dirigermi verso un tutt’altro registro cinematografico, magari una commedia, sarebbe per me un piacere lavorare con Emanuela Fanelli. Ne ho scoperto il talento e il senso della battuta nell’ultimo film di Virzì, Siccità. Sono sicuro che non smetteremmo di ridere durante le riprese.
La tua ultima esperienza a Firenze al Festival dei popoli con il docufilm An Italian youth, difficile storia d’immigrazione in Italia, è preludio di uno sbarco a Venezia?
La Mostra del Cinema di Venezia è un festival al quale sono molto affezionato. Dal 2019, ci vado ogni anno con mio padre per scoprire in anteprima i migliori film del panorama mondiale. È per me l’occasione di passare un bel momento con la persona che mi ha fatto scoprire il cinema. Tra due anni, dovrei essere in fase di completamento del mio primo lungometraggio di finzione, L’oro rosso, prodotto per l’appunto dai fratelli Dardenne. Sarebbe davvero emozionante poterlo mostrare durante il festival di Venezia, ma per ora, è importante per me rimanere con i piedi per terra: l’obiettivo numero 1 è innanzitutto fare un film capace di arrivare al cuore di chi lo guarda.
E noi tutti glielo auguriamo. Prosit e ad maiora.