La questione delle sanzioni alla Russia: un’analisi

La questione delle sanzioni alla Russia: un’analisi
Fonte immagine: Kremlin.ru

di Donatello D’Andrea

La questione delle sanzioni è certamente un argomento complesso e che si presta facilmente a polemiche. Una vera analisi, chiara e oggettiva, circa la loro reale efficacia, però, non è stata ancora proposta. Tutte quelle finora adottate sono state narrazioni fine a sè stesse, a senso unico, e incapaci di scavare a fondo per capire come lo strumento delle sanzioni sia una scelta politica – più che economica – necessaria a una comunità internazionale che non ha alcun interesse a ricorrere allo scontro frontale con Mosca. Inoltre, si tratta di uno strumento che, anche nel sul intento sanzionatorio, non è assolutamente a senso unico, dato che produce conseguenze su entrambi gli schieramenti.

Le sanzioni non sono una novità. La loro adozione fu proposta dal  Presidente americano Wilson negli anni del primo dopoguerra con intenti “pacifisti”. Tale strumento, in mano alla neonata Società delle Nazioni (antesignana dell’ONU), era un modo per imporre la volontà della comunità internazionale senza ricorrere alla guerra.

Fino ad ora, i successi della pratica sanzionatoria non sono stati molti (Cile, Sudafrica), perché, in fin dei conti, tale strumento ha dei limiti più o meno evidenti che ineriscono le dimensioni geografiche del Paese sanzionato, la sua importanza geo-strategica, il livello di “partecipazione” all’economia mondiale e soprattutto la presenza di uno o più monopoli in senso energetico, di materie prime o di una manifattura a basso costo.

La Russia, manco a dirlo, è un gigante territoriale, energetico e che produce materie prime indispensabili per il processo produttivo occidentale. Non è una grande manifattura e non ha una grande finanza internazionale, ma in compenso è tra i primi cinque produttori delle più importanti materie prime: dal petrolio al gas, dal nichel al cobalto, dal platino all’oro, passando per argento, uranio, palladio. Senza dimenticare il grano, le patate e l’orzo.

Isolare un produttore così importante senza conseguenze è difficile. E non bisogna dimenticare che alle sanzioni corrispondono delle contro-sanzioni altrettanto “pesanti”. In particolare, quelle russe potrebbero seriamente danneggiare i Paesi europei, cioè quelle grandi manifatture che hanno bisogno di materie prime per produrre. Ancora più complessa è la questione dei “rottami ferrosi”, che sono una parte non trascurabile della produzione metallurgica italiana, francese e tedesca. Si tratta di un processo lungo e complesso la cui filiera si srotola soprattutto nell’Est Europa (Ucraina) e in Russia.

L’Europa può rifornirsi altrove (cosa un po’ più complessa per i rottami), ma a prezzi ovviamente maggiori. Al contempo, però, deve fare i conti con una riduzione della produzione e con l’aumento della disoccupazione.

Inoltre, ci sono due punti che non sono stati adeguatamente considerati e sono riconducibili a chiari ed evidenti errori di intelligence compiuti dagli occidentali durante la loro attività di studio e osservazione dell’Orso russo. Ormai è assodato che la rete informativa dei servizi segreti di Europa e Stati Uniti in Russia sia stata deficitaria, poco efficiente se non proprio assente – se escludiamo ovviamente la dimensione operativa.

Il primo punto è il reale valore delle riserve monetarie della Russia. Si parla di 630 miliardi di dollari, ma il sospetto è che siano maggiori. Non è un segreto che gli oligarchi – e lo stesso Putin, il quale si serve di prestanomi di fiducia appartenenti alla cerchia dei “Pietroburghesi”, cioè a membri della classe dirigente russa provenienti dalla città d’origine del Presidente – abbiano denaro ovunque, in fondi nascosti e posti sicuri e che, per salvare la base materiale su cui si regge la loro “fortuna” politica ed economica, possano decidere di usare una parte del loro denaro per sostenere il rublo. Di conseguenza non sarebbe inusuale se questi eminenti personaggi decidessero di acquistare titoli di debito russo per salvare Mosca dal default.

Inoltre ci sono le conseguenze su attori “terzi”, come il blocco nei porti delle navi che trasportano grano ad Africa e Medio Oriente. La guerra del cibo produce inevitabili squilibri all’interno di quei Paesi politicamente instabili, nonché disagi in quelli economicamente avanzati. Ed è chiaro che l’Occidente non abbia considerato questi – inevitabili – particolari all’inizio della guerra.

È comunque assodato che le sanzioni abbiano colpito duramente Mosca, già nei primi mesi di guerra. Le riserve monetarie sono scese di decine di miliardi di dollari nel giro di poche settimane. La Russia è stata colpita in punti assai delicati come i pezzi di ricambio per gli aerei, prodotti di alta tecnologia, semiconduttori, medicinali e pezzi per l’automotive. Inoltre, il fatto che Mosca abbia perso un ottimo compratore di petrolio e gas come l’Unione Europea, non è certo uno scherzo.

Tutto ciò premesso, le sanzioni sono uno strumento di strategia indiretta da cui non si possono pretendere gli stessi effetti delle armi, cioè una rapida – e anche questo dipende da vari fattori, come la guerra in Ucraina ha ampiamente dimostrato  – soluzione del conflitto. Agiscono nel tempo, nel lungo periodo e logorano entrambi gli schieramenti. A questo proposito Mosca conserva due vantaggi: il primo è la presenza di una manifattura debole, che corre meno il rischio di essere sottoposta a grandi ondate di disoccupazione – al contrario degli europei. Il secondo inerisce, invece, la maggiore capacità, da parte della popolazione, di sopportare privazioni economiche. Per il resto, togliere o diminuire le sanzioni sarebbe, a questo punto, per l’Occidente una grande sconfitta politica. È indubbio che stiano logorando Mosca ma è altresì chiaro che la rapida efficacia delle sanzioni sia basata su una falsa credenza. O, forse, speranza.

Redazione Radici

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