Propositi per il 2023: capire cosa e come pensa la Cina
Ogni anno, in corrispondenza degli ultimi giorni di dicembre, è buon uso tracciare un resoconto dell’anno appena trascorso e cercare di delineare speranze e obiettivi futuri per i successivi dodici mesi. Definiti “buoni propositi” e inseriti in una lista, tali aspirazioni finiranno al centro dell’ennesima riflessione alla fine del prossimo dicembre. Sulla scia di questa intramontabile tradizione, ho deciso di fare la stessa cosa ma utilizzando argomenti ricorrenti in politica, come l’ascesa della Cina, l’Unione Europea e il suo futuro, nonché l’annoso problema dei Balcani – che, negli ultimi giorni, è tornato alla ribalta a causa delle tensioni tra Serbia e Kosovo, anche se il gelo tra Ankara e Atene non è da sottovalutare – senza dimenticare quanto importante sia, per il futuro, quello che sta accadendo in Iran.
In questo primo articolo, di una brevissima serie di scritti che ho appositamente denominato “Propositi per il 2023”, ho deciso di affrontare un argomento attualissimo e di un’importanza, soprattutto strategica, fondamentale: capire cosa e, soprattutto, come pensa Pechino. Comprendere, cioè, quale sia la visione con cui la seconda superpotenza mondiale, nonché un partner commerciale vitale per il mercato europeo e mondiale, ma anche un rivale politico, economico e geopolitico si approcci con il mondo e soprattutto con l’Occidente. Capire il dragone significa saperne prevedere le mosse e gli obiettivi, una cosa che, noi europei e occidentali, non abbiamo ancora imparato a fare, complice sicuramente la nostra millantata superiorità culturale e politica.
Cosa e come pensa la Cina?
Cosa vuole realmente la Cina? È giusto, sia politicamente che strategicamente, approcciarsi alle istanze cinesi adottando una lente occidentale, i nostri valori e le categorie che adottiamo per giudicare la nostra visione del mondo?
Cosa pensa il Dragone? E soprattutto come pensa? È importante saper rispondere a queste domande per approcciarsi in modo cauto ma anche deciso nei confronti di un Paese che, nel 2023 continuerà a rappresentare la (reale) seconda superpotenza economica e politica planetaria e che, oggi come il prossimo anno, continuerà imperterrita a contendere il dominio globale degli Stati Uniti.
E questo urge per un motivo importantissimo: noi non abbiamo capito la Cina, ma lei ha capito benissimo noi. Sa, cioè, quali strumenti usare per arrivare dritti al cuore del business europeo, a quello delle classi dirigenti e anche a quello dei comuni cittadini. Sa usare benissimo ogni mezzo a sua disposizione per riuscire nei suoi intenti.
La nostra conoscenza di Pechino, al contrario, i basa su pregiudizi e su quei pochi scritti di giornalisti anglosassoni che circolano da mezzo secolo e che all’occorrenza vengono adoperati ancora oggi quando si parla di Pechino.
Da allora, com’è ovvio, è cambiato tanto, in Cina. Il governo afferma di aver risollevato dalla povertà quasi mezzo miliardo di persone, si è affermata come una potenza politica ed economica ambiziosa, proponendo un nuovo modello di sviluppo basato sull’efficienza e su una democrazia autocratica, rigida ma “meritocratica”, in cui la politica è gerarchicamente superiore all’economia.
Di recente, Pechino, proprio per affermare l’efficienza del proprio modello ha proposto un libro bianco sulla democrazia che mette sotto accusa il modello americano. Ne denuncia le disuguaglianze sociali, i crescenti episodi di razzismo e le modalità invasive con cui Washington ha esportato con la forza la sua versione di democrazia, provocando guerre e “rivoluzioni” in giro per il mondo. Al modello Usa, Pechino oppone una versione di “democrazia cinese” che sostiene di tener conto delle condizioni sociali e culturali di ogni Paese. Il soft power cinese, infatti, si basa sulla promessa di non essere un Paese imperialista, offrendo un’altra soluzione alle nazioni in via di sviluppo per accrescere il proprio bagaglio tecnologico, economico e finanziario. Si tratta della ormai celeberrima strategia del win-win che gli americani e gli occidentali hanno ribattezzato come “trappola” ma che fruttato ai cinesi l’ingresso trionfale all’interno di numerosi stati, soprattutto africani e sudamericani, ricchi di materie prime – che ad una nazione energivora come la Cina, servono come il pane. Ma di Pechino bisognerà anche discutere circa il confronto tecnologico con Washington, soprattutto sotto l’aspetto delle terre rare – cioè quei 17 elementi chimici vitali per la fabbricazioni di componenti fondamentali quali i micro-chip – e del loro possesso.
Toccherà, infine, comprendere altresì se a Xi Jinping e alla Cina interesserà scalzare il predominio degli Stati Uniti oppure, riprendendo alcune delle ultime interviste del leader cinese, accetterà la convivenza, limitandosi a difendere i suoi interessi economici e di sicurezza e a non ammettere ingerenze sulle questioni interne, come gli uiguri, Taiwan e i diritti umani?
La guerra in Ucraina, poi, cambierà l’approccio cinese alla politica internazionale? L‘amicizia senza limiti con la Russia reggerà l’urto di un conflitto potenzialmente pericoloso per la bilancia commerciale di Pechino? La Russia, profondamente indebolita, ha perso l’iniziativa e si appresta a finire sotto l’ombrello protettivo cinese. Un punto in meno per Putin, sicuramente, ma siamo sicuri che un tale epilogo si rivelerà un punto a favore per Xi Jinping nel lungo confronto con gli Stati Uniti?
Si tratta di domande la cui risposta passa attraverso un presupposto necessario: capire cosa e come pensa il dragone. Adottando un punto di vista occidentale, questi quesiti non troveranno mai una risposta, se non fallace e inutile, suscettibile di creare fraintendimenti che potrebbero portare a uno scontro in cui l’Occidente partirebbe con uno svantaggio decisivo, cioè quello di non conoscere il proprio avversario.
Redazione Radici