Vanità e non vanità. Possibile viaggio di una parola

Vanità e non vanità. Possibile viaggio di una parola

Nella società contemporanea i canali social sono strumenti che sembrano essere se non indispensabili, quantomeno necessari per essere aggiornati e informati in tempo reale su quanto accade, per mantenere relazioni anche a distanza, per mostrare all’istante dove ci si trova, cosa si fa. Si tratta di trovare equilibrio nel loro uso, come oramai si sente e si scrive ovunque, perché si possono rivelare, pur restando utili strumenti, casse di risonanza di altre finalità. Possono trasformarsi in amplificatori potenti nei quali accade che risuoni la parola “vanità”, per ciò che si mostra e per come si è.

Le parole e il loro intrinseco significato si tramandano di generazione in generazione, seguono l’andamento dettato dai tempi, si modulano alle esigenze emergenti e il racconto che segue è il possibile viaggio dell’interpretazione della vanità.

Benjamin Franklin nelle prime pagine dell’autobiografia, datata 1869, scrive: “…Quasi sempre, invero, quando ho inteso pronunciare od ho letto questa frase preparatoria: – Posso dire senza vanità – mi accadde vederla tosto seguita da qualche vanitosa espressione. Generalmente parlando, per quanto uno sia gonfio di vanità, la detesta in altrui; ma quanto a me, la rispetto ovunque la trovo, stimandola utile… e direi non assurda cosa, che in molte circostanze uno contasse la sua vanità, e ne rendesse grazie alla Provvidenza…” e ancora si legge nella nota che riporta un estratto dell’epistola inviata a un amico: “Ciò che voi dite dell’amore della lode è verissimo: regna desso più o meno in ogni cuore; ma noi per onesto rispetto siamo quasi sempre ipocriti, e vogliamo far credere che poco c’importi delle lodi… Questa ipocrisia è un sacrificio che facciamo all’altrui orgoglio, o all’altrui invidia… Il sacrificio medesimo facciamo ogni qualvolta ci asteniamo dal lodare noi stessi… Che poi questa sia un’inclinazione naturale, lo vediamo nei bambini, i quali ne fanno mostra a ogni tratto, e si proclamano senz’ alcun ritegno per buoni figliuoli. Ma noi grandi ne li sgridiamo: però si sentono ripetere che non sta bene lodarsi di sé, ed essi prendono il vezzo di consurare altrui, che è poi un’altra maniera di tessere le proprie lodi…”.

Questa parte di testo apre a un nuovo sguardo su una delle caratteristiche che oggi si accompagna alla società. Se da un lato si assiste al richiamo a non smarrire la propria naturalezza  –  diversi sono i percorsi finalizzati all’accettazione di sé stessi come testimonia l’aumento delle discipline che pongono al centro il proprio sé – dall’altro è presente una sorta di devozione per la propria persona che talvolta raggiunge quello che, a mio avviso, è segno di un significato di vanità ben diverso da quello a cui fa riferimento Franklin avvicinandosi, invece, al significato della parola che il dizionario Devoto-Oli riporta, ovvero: “frivolo compiacimento di sé e delle proprie qualità personali, vere o presunte”. Il vocabolo in questione, tuttavia, porta con sé un aspetto immutato e che si incontra e si ripete in contesto educativo richiamando il fatto che non sta bene lodarsi di sé.

Dare risalto al proprio valore è cosa diversa dal prendersi cura di sé ponendo al centro esclusivamente il proprio io. E in questa argomentazione non si può, infatti, non coinvolgere un’altra parola: equilibrio. Fondamentale è trovare equilibrio tra una certa vanità, che si potrebbe definire positiva in quanto intesa come consapevolezza del proprio valore, e la vanità intesa come il far emergere le proprie qualità a elemento di superiorità.

Il rapporto dell’individuo con sé stesso, e conseguentemente con i propri valori, i propri punti forti, è una questione di equilibrio. Equilibrati nella mente, equilibrati nel corpo. Ma c’è un autore, Romain Gary, che fa esperienza di vanità passiva. Nelle pagine de “La promessa dell’alba” è la madre a vantarsi di Romain sia per una sua caratteristica fisica – il volgere lo sguardo al cielo per dare risalto alla bellezza dei suoi occhi azzurri è un gesto spesso richiesto dalla madre – sia tessendone precocemente le lodi sul futuro che lo potrebbe vedere ambasciatore, scrittore, valoroso combattente. A presentare Romain con adorazione, che potrebbe essere nuova sfumatura della parola “vanità”, non è lui stesso, bensì la madre e per il figlio rimanere in equilibrio tra il proprio sé e l’orgoglio (o bramato vanto?) materno non è certo facile.

Altra sfaccettatura, a mio avviso, la si incontra nella graphic novel “Michelangelo. Il conflitto della Sistina” dove, tra arte grafica e testo, le pagine raccontano l’impresa che lo scultore portò a termine realizzando quella che rappresenta oggi una delle opere artistiche il cui valore e bellezza eccheggiano nel mondo. Considerando che i dialoghi sono immaginati sono comunque espressione di un contenuto che riflette la storia e così una sorta di nuovo aspetto di vanità si potrebbe trovare nel seguire il temperamento di cui l’artista dà testimonianza. Ad esempio, quando Michelangelo decide di mutare la struttura del ponteggio realizzato da Bramante: una circostanza nella quale, sebbene non vi sia esplicitata la parola, l’atteggiamento dell’artista potrebbe apparire vanitoso, dandone ritratto di persona superiore a colui che è stato chiamato per adempiere a un preciso ruolo. Al tempo stesso, non si può certo definire un atteggiamento frivolo. E ancora, diversi sono i continui contrasti con il pontefice committente dell’opera verso cui Michelangelo mantiene le sue visioni e non cede alle richieste. Ne è prova il dialogo sulla figura di Adamo ed Eva riguardo alle quali si legge: “Se anche voi volete un Adamo ed un Eva a cui colpa sia stata quella di aver rubato una mela, date quest’incarico ad un altro maestro. Ma se desiderate un’opera che muova la coscienza degli uomini, allora lasciatemi libero di mostrare tutto!”.

I citati richiami letterari delineano il viaggio che può portare una parola a mutare e ampliare le modalità in cui la stessa viene interpretata, aprendo a nuovi punti di vista. In fin dei conti, vanità potrebbe essere anche un’interpretazione errata della sicurezza che la persona ripone nelle sue capacità, e ancora, potrebbe essere espressione della fiducia riposta dagli altri nelle possibilità che si intravedono in un individuo. A tal proposito appare coerente, sebbene appartenga al contesto psicologico, la visione di Paul Watzlawick riportata nel testo “Change. Sulla formazione e risoluzione dei problemi” dove “ristrutturare” – e tale verbo è da lui inteso riferendosi alle relazioni – significa dare una nuova visione del mondo concettuale oppure emozionale oppure di entrambi e permettere così una nuova visione della realtà. Un processo che, a mio avviso, può essere traslato anche nell’evoluzione delle parole, del loro significato, della loro interpretazione. La vanità di Benjamin Franklin è diversa da quella materna di Romain Gary che pare essere naturale adorazione o dalla vanità intesa come sicurezza di sé di Michelangelo, senza dimenticare il vanitoso di Antoine de Saint-Exupéry per il quale “Ammirare vuol dire riconoscere che io sono l’uomo più bello, più elegante, più ricco e più intelligente di tutto il pianeta”.

Le parole sono interpretazione, sono istruzioni di comportamenti, possono essere eccezioni o sfaccettature che arricchiscono e rendono più completa la loro accezione, ma anche più complessa. Lodarsi può essere la forma più esile della vanità che altro non è se non la giusta considerazione di sé. Eppure, c’è anche una cattiva considerazione di sé alla quale la poetessa Wislawa Szymborska dedica una lode, “Lode alla cattiva considerazione di sé”:

La poiana non ha nulla da rimproverarsi.

Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.

I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.

Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.

 

Uno sciacallo autocritico non esiste.

La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano

Vivono come vivono e ne sono contenti.

 

Il cuore dell’orca pesa cento chili

ma sotto un atro aspetto è leggero.

 

Non c’è nulla di più animale

Della coscienza pulita

sul terzo pianeta del Sole.

 

Che la “buona” considerazione di sé sia il punto di equilibrio tra fiducia e vanità, e quindi la destinazione di questo possibile viaggio?.

Francesca Girardi

Redazione

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