Una scuola non scuola

Una scuola non scuola

di Vincenzo Olita*

E sì, volendo occuparci della nostra scuola dovremo riflettere su un organismo indefinito e indefinibile quanto mai distante da una vera e dignitosa istituzione dedita all’accrescimento culturale e quindi all’arricchimento umano. Non presteremo attenzione al ferimento dell’insegnante nell’istituto milanese: sarebbe ridondante, appartenente al passato, dedicarsi allo stravolgimento, ormai consolidato, di un sistema come quello scolastico.

Vedi le nostre news del 3 settembre 2020 – La scuola e i suoi bisogni, 13 dicembre 2021 – La scuola e la sua rinascita, 26 agosto 2022 – La scuola e il suo declino. 

L’episodio ha scatenato un diluvio di dichiarazioni, di analisi, di prese di posizione che hanno avuto il merito di evidenziare l’inadeguatezza degli addetti ai lavori rispetto allo stato comatoso dell’universo scuola.

Il teatro della visibilità è stato aperto dal Ministro dell’Istruzione annunciando il supporto psicologico in tutti gli istituti e tutor di supporto alla personalizzazione dell’insegnamento, educatori per insistere sull’Educazione civica, il tutto condito dalla modesta ed improvvida considerazione: “A seguito del Covid, è molto aumentato il disagio dei ragazzi”.

Dinnanzi a questa prospettiva, con estesa soddisfazione si è accodato il presidente del Consiglio dell’Ordine degli psicologi che ha espresso la necessità d’implementare la presenza dei suoi colleghi, esperti di psicologia scolastica, non solo in supporto degli studenti ma anche degli insegnanti. “Non ci si deve occupare solo del disagio ma nel contempo sostenere le risorse positive”. Spalancati gli ingressi alle assunzioni si ingrossano le schiere degli esperti di educazione psicologica, sociologia della comunicazione, medicina scolastica, pedagogia, e perché no, di servizio sociale per i rapporti scuola famiglia,

Insomma, un gran salto per la salute mentale dei partecipanti e per la serenità della quotidianità della scuola che trova così una sua presunta funzione olistica.

Non poteva mancare la voce dei sindacati, primo fra tutti, la CGIL che con la sua Federazione Lavoratori della Conoscenza, denominazione tanto pomposa quanto presuntuosa, avverte che occorreabbandonare la logica dell’umiliazione, del merito, della competizione”, per un’avveduta conoscenza (n.d.r.).

Dello stesso spessore i ragionamenti della segreteria UIL Lombardia: ”La scuola italiana è un’eccellenza in Europa. Però la società ne parla male screditandola in continuazione, alla fine i ragazzi sono coinvolti da una società allo sbando”. I docenti quotidianamente svolgono un lavoro encomiabile, la scuola deve essere unica, statale e laica”. Neppure la scuola napoleonica, pur nella sua rigidità, si era mostrata così netta. “Bisogna cambiare la società e la politica, la scuola deve solo riprendere il suo prestigio, i docenti sanno gestire i conflitti e hanno una buona preparazione che dovrebbe essere riconosciuta da adeguate retribuzioni, purtroppo i ragazzi non abituati alle valutazioni non reggono le pressioni”.

Tralasciamo l’analisi dell’Associazione nazionale Presidi che si riduce ad invocare un presidio psicopedagogico nelle scuole, in linea e a supporto della posizione ministeriale senza un cenno autocritico o una parvenza di autovalutazione, considerando che sono una componente dello sfascio.

Poi la psicoterapeuta di turno, accodandosi alla modaiola narrazione, ci intrattiene sui guasti esistenziali patiti dagli studenti causa pandemia. Apprendiamo così che la scuola produce ansia e frustrazione a causa di stress, competizione, valutazione, mancanza di prospettive e tre anni di incertezze, così come gli universitari sono stressati, da cosa? Dalla fatica dell’apprendimento? Se così fosse sarebbe opportuno avviarsi verso cammini che assicurino felicità. Tralasciando l’inconcludenza dei rimedi suggeriti, proseguiamo  elevando un inno al Covid produttore di scienza e professionalità in cerca d’occupazione in quella che chiamano scuola divenuta una Babele che accoglie una gioventù recuperabile attraverso trattamenti degli esperti.   

Che dire, del nostro politicamente scorretto, del resto, avevamo anticipato inadeguatezza, povertà di analisi, pressapochismo e sconsiderazioni di questi antichi e nuovi professionisti. A soffermarsi sui loro suggerimenti avvertiamo, questa volta sì, incredulità e angoscia per il futuro scolastico di giovani psichicamente svantaggiati a cui si offre una triste e deprimente quotidianità. Fragili, impauriti, segnati dal Covid, non abituati a pressioni, ritmi e valutazioni i nostri Baudelaire scaricano il mal di vivere in aggressione e contrapposizioni. Apprensivi per inesistenti pressioni e valutazioni, in effetti il 99,98 degli esaminandi superano l’esame di maturità rispetto all’80% degli studenti francesi e con corsi di studio non propriamente selettivi.

Per lo psichiatra, con cui concordiamo, Paolo Crepet: “La scuola è fallita, abbiamo un problema di educazione, non di disagio”.

Certo, tra una scuola fragile e confusa, su quello che dovrebbe essere la sua centralità nello sviluppo giovanile, e la famiglia che diluisce sempre più ruolo e presenza, la condizione giovanile può assumere connotati di solitudine forieri, per esigue minoranze, di sfasature caratteriali.

Quando il ministro dell’istruzione, a proposito della prova orale della maturità, ha sostenuto che poteva svilupparsi come chiacchierata panoramica sul futuro dell’esaminando, si è adoperato per la recita di un ulteriore De Profundis. Al trapasso ormai avvenuto ha contribuito un’incredibile serie di Ministri dell’istruzione affetti da un vuoto modernismo e dalla necessità/capacità di convertire gli studenti in amici/nemici della scuola, ricordiamoli a futura memoria, in ordine cronologico: Letizia Moratti, Giuseppe Fioroni, Mariastella Gelmini, Francesco Profumo, Maria Chiara Carrozza, Stefania Giannini, Valeria Fedeli, Marco Bussetti, Lorenzo Fioramonti, Lucia Azzolina, Patrizio Bianchi e Giuseppe Valditara.

La nostra critica e il nostro pessimismo non sono riportabili solo alla decadenza contemporanea, l’intrinseca complessità del farsi carico degli aspetti conoscitivi delle future generazioni ha, nello scorrere del tempo, stimolato considerazioni di pensatori e non conformiste inquiete menti. Qui siamo lontani miglia dai politici di terzo e quart’ordine che, negli ultimi decenni, in nome di presunti e incomprensibili rinnovamenti, hanno suicidato il soggetto da ringiovanire. Ancor più, quanta lontananza con un sindacalismo, di fatto interessato solo alla parvenza di uno sgangherato corporativismo.

Con il nostro liberalismo, invece, quanta vicinanza con la scuola di Platone per la ricerca della verità, e con Aristotele per la convinzione che l’educazione è principio intrinseco alla persona. In tempi più vicini, due personalità diverse e distanti per ideologia e cultura, Giovanni Papini e Pier Paolo Pasolini hanno provato a richiamare l’attenzione su negatività e criticità del percorso educativo. Il primo con un provocatorio scritto del 1914 Chiudiamo le Scuole”, particolarmente caustico con gli insegnanti incapaci a trasmettere confondendo i cervelli ricevitori dove, con lucidità emerge che la complessità del rapporto insegnanti/allievi è nodo centrale nella vita dei giovani. Per i maestri vi è l’esigenza di guadagnarsi il pane con una professione ritenuta nobile affiancata da ispettori, presidi, bidelli, preparatori, assistenti, editori, librai, cartolai: a tutti e ai maestri, converrebbe assicurare vitalizi per risparmiare agli studenti patenti da cretini di Stato.

Anticipate di109 anni, ritroviamo considerazioni contemporanee, l’estesa fragilità degli insegnanti, le preoccupazioni corporative, l’interessata filiera a supporto del corpo insegnante, ben poca cosa rispetto a quanto si prospetta in aiuto dell’odierna massa di svantaggiati.

Nell’articolo sul Corriere della Sera nel 1975 “Aboliamo la la tv e la scuola dell’obbligo” Pasolini pone l’accento sulla necessità di una riforma dell’istruzione dove si parla di cose inutili, e se questo è insegnamento, nel primo caso ancor peggio, si tratta di esempi dove i giovani sono indifesi ed esposti ad una cultura della criminalità; e qui come non collegarsi al Karl Popper di Cattiva maestra televisione del 1994.Utopisticamente, almeno come non sospendere la scuola dell’obbligo a favore di molte e svariate letture per favorire  immaginazione e intelligenza. La sensibilità pasoliniana si affanna anche per gli insegnanti e i dirigenti televisivi che, a suo avviso, possono usufruire della cassa integrazione. Aver ragionato contemporaneamente su insegnamento ed esempi avvalora necessità e validità di un approccio sistemico all’emergenza docenza lontano quanto mai dal pressapochismo contemporaneo.

E sì, lo crediamo fermamente, la scarsa autorevolezza della docenza non può non essere tra i capoversi di una compiuta riflessione sulla scuola. Intanto, la convinzione che nelle aule si dovrebbe respirare innanzitutto umanizzazione e gioia presuppone la capacità del leader d’iniettarle, ma crediamo proprio di no, siamo all’assenza di molte necessarie consapevolezze.

L’autonomia e l’indipendenza intellettuale, la libertà di pensiero, l’inclinazione per la conoscenza e la scoperta dell’uomo e del suo ambiente, venivano esaltati e individuati come il nocciolo della funzione e dell’utilità di un liceo, dal giovane Nietzsche e da un suo amico. Accadeva in una messa in scena letteraria in cui i due giovani colloquiavano con un vecchio filosofo antimodernista e antiaccademico in cui si può intravvedere la figura di Schopenhauer, e riportata nella quinta conferenza di un ciclo tenuta dal giovane Nietzsche nel marzo del 1872 “Sull’avvenire delle nostre scuole”.

Il vecchio, non concordando con quanto ascoltato, parlò dell’intima interiorizzazione che dovrebbe essere avvertita, come profonda condizione aristotelica, nell’eterna e sempre uguale ricerca della verità. La consuetudine dell’autoeducazione non deve consentire di soggiacere allo spirito di un’accademica cultura. La formazione dei giovani, avverte il filosofo, è misurabile rispetto al trinomio filosofia, arte e antichità greca romana ma i professori, sminuita la filosofia, trascurata l’arte non possono discettare neppure sui Greci e Romani. L’educazione culturale, avverte il vecchio amico, si deve avvalere di scopi, metodi, modelli, maestri e compagni; ogni cultura che ha inizio con la subordinazione, la disciplina e l’obbedienza, ha bisogno anche di una guida così come chi guida ha bisogno di coloro che sono guidati. Crediamo che le comunità di studio necessitino di armonia e gioia a cui andrebbe fermamente indicato che la violenza è antitesi e negazione della verità.

Del resto, insegnare dovrebbe presupporre aver chiaro il metodo e un’operazione di maieutica, ma se tutto è dovuto è altrettanto vero che non c’è nulla da insegnare.

Siamo coscienti che quest’ultima parte del nostro racconto sarà percepita e interpretata come desueta e fuori tempo, proprio così, anche noi concordiamo. Sarebbe ciclopico per legislatori e addetti ai lavori risalire il tempo in una scuola predisposta per una psicoterapia di massa e per la massima estensione dei suoi insegnamenti pronti a sminuire il suo stesso essere scuola. Infatti, tutto ciò che politica, informazione, enti sovranazionali ritengono di dover essere materia d’insegnamento viene introdotto in quanto tale, la definiscono come educazione di tutti i tipi e di ogni genere; Stradale, Sessuale, Sentimentale, Ambientale, Emotiva, Civica, Alimentare, Estetica, Morale, alla Legalità, alla Pace, alla Cittadinanza e Costituzione, allo Sviluppo Sostenibile. Il ridicolo non abbisogna di commenti, di una definizione sì, e questo è Statalismo culturale.

Allo stesso modo non crediamo di parlare con particolari dell’introduzione delle materie non cognitive volute dall’ex ministro Bianchi (2021/2022).

Aveva ragione Luigi Einaudi quando ammoniva, in Prediche Inutili, che non si condanna un sistema elencandone gli inconvenienti, così come quando scriveva che il passato domina giustamente il presente e l’avvenire.

Allora, concludendo queste riflessioni con convinzioni einaudiane potremmo sostenere che pietra d’angolo per un’eventuale ritorno alla scuola, intesa in senso compiuto, non possa non ripartire dall’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Un mito che occorre superare se si vorrà scindere l’interessato legame tra una burocratica certificazione e la passione per cultura e conoscenza, forse, l’avvio di effettive istituzioni per questo scopo.

 *Direttore Società Libera    

Redazione

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