Vincent Van Gogh al Mudec

Vincent Van Gogh al Mudec

Follia o lucidita’ mentale? Scopriamolo attraverso la “testimonianza” dei suoi dipinti

Un autunno “decisamente caldo” per le importanti e ricche proposte culturali, accolte in una “città che continuamente sale” e che si confronta, in dialogo aperto, con artisti di fama internazionale: Milano al Mudec con Vincent Van Gogh e Milano a Palazzo reale con Francisco Goya e El Greco.

Certo, il fascino irrequieto e ribelle di Vincent (si firmava con il solo nome di battesimo e così desidero chiamarlo), artista olandese, vissuto nella metà dell’Ottocento, al tempo degli Impressionisti, è innegabile; attira e continua a catalizzare lo spettatore di ogni epoca e tempo, emozionando empaticamente, grazie alla sua pennellata corposa ed animata, enfatizzata dalle brillanti cromie, spesso giocate sui gialli accesi e sui blu intensi.

Certo, è un uomo-artista decisamente moderno, in quanto profondamente dilaniato dentro, in quel dilemma umano senza tempo che anche noi, uomini di un’epoca tecnologica ed avanzata, sperimentiamo nella nostra quotidianità: da un lato, il desiderio di essere autentici e dall’altro, l’impossibilità di farlo concretamente nella realtà delle convenzioni sociali.

Vincent è sicuramente questo ma non solo, tanto altro sveleremo del suo mondo, attraverso l’analisi di alcune delle sue opere.

Ed ora, prima di presentare il taglio particolare della mostra al Mudec, che ci consegna un’immagine più intellettuale dell’artista, non semplicemente outsider, ma colto ed aggiornato sul panorama dell’epoca e con doti oltre che pittoriche anche letterarie, ripercorriamo a ritroso la sua intensa anche se breve esistenza, partendo dal tragico epilogo.

Il 27 luglio del 1890, ad Auvers-sur-Oise, nei pressi di Parigi, in un campo di grano, dove soleva spesso dipingere, durante le brevi fughe dall’ultimo ospedale psichiatrico che lo accolse, Vincent si spara un colpo di rivoltella al petto, morendo due giorni dopo, all’età di soli 36 anni.

Un epilogo tragico, conseguenza del peggioramento della sindrome, di cui da anni soffriva e che in realtà, attraverso una lettura più attenta delle sue opere, sarebbe stata diagnostica e forse anche curata per tempo, senza indurlo, in uno dei momenti di maggior desolazione, alla drammatica scelta suicida.

Andiamo per ordine e domandiamoci: di che sindrome o patologia era affetto Vincent? E in che modo, osservando e analizzando semplicemente le sue opere, sarebbe stata diagnostica?

 

All’epoca dell’artista olandese, le conoscenze mediche erano ancora frammentarie e spesso, di fronte ai pazienti che mostravano segni psicologici disturbati o instabili, si tendeva ad etichettarli come depressi o schizofrenici, relegandoli in contesti ancora più soffocanti e restrittivi come gli ospedali psichiatrici (pensiamo per esempio alla nostra grande poetessa Alda Merini). 

E ad Arles, nel sud della Francia, dopo l’amputazione del lembo dell’orecchio destro, avvenuta alla vigilia del Natale del 1888, in seguito ad un litigio con Paul Gauguin, Vincent viene internato in manicomio, considerato pericoloso per la comunità (anche se effettivamente aveva compiuto un atto autolesivo e non contro altri).

E da quel particolare episodio che i medici del tempo iniziarono a fare delle ipotesi sulla sua condizione psicologica, ora individuandone i segni dell’epilessia, ora di un profondo e acuto stato depressivo.

Interessante, invece, il contributo dello psichiatra Jaspers, allievo di Carl Jung, che in un saggio del 1922, sul rapporto tra arte e malattia, riconosce in Vincent, i sintomi non dell’epilessia o della depressione che in origine, gli era stata diagnosticata ma la più devastante schizofrenia, una grave malattia mentale, caratterizzata dalla dissociazione della personalità.

Sicuramente importante contributo ma non fondato dalla particolare lucidità mentale mostrata dall’artista, valutata nelle numerose lettere indirizzate all’amato fratello Theo e scritte con una acutezza e sottigliezza sorprendente ed oltretutto, confutate dalla creativa e vulcanica attività che mai lo abbandonò.

E allora, quale potrebbe essere la patologia che aggravata lo condusse al suicidio?

Le opere di Vincent ce lo rivelano e ci parlano di un malessere evidente anche se non ascoltato dai molti ma urlato nei dipinti con una foga espressiva senza precedenti e che anticipa i movimenti artistici di inizio del Novecento, l’Espressionismo.

Osserviamo, in particolare, due opere, la “Terrazza del caffè, la sera” realizzata ad Arles nel 1888 e la famosissima Notte stellata dell’anno successivo.

 La prima opera ci offre uno spettacolo notturno suggestivo, uno scorcio della vita moderna di Arles, attraverso un’infilata prospettica audace che ci indirizza verso la terrazza di uno dei ritrovi più amati della cittadina, un caffè tutto giallo, animato da avventori seduti ai tavoli e figure che camminano sull’acciottolato della strada. E nel cielo, le stelle appaiono come “piccoli soli notturni” che animano la notte, in stretto dialogo con il divertimento moderno dei passanti.

Il tema dipinto è sicuramente moderno e in linea con quello affrontato dagli impressionisti ma ciò che colpisce è l’uso preponderante di due soli colori: il giallo brillante che conosciamo onnipresente nei suoi amati girasoli e il blu intenso, profondo.

 Anche nella famosa Notte stellata, l’artista olandese utilizza solo ed esclusivamente i due colori: il blu del cielo che troneggia come protagonista assoluto si mostra come un incessante e vorticoso ondeggiare di nuvole che, animate da un impulso vitale, dialogano con le stelle gialle, fari nella notte, che sembrano dei soli e con la luna che ambigua, si cela entro un sole.

Ancora due soli colori che qui sono accompagnati anche da una pennellata a spirale che ci catapulta dentro quell’universo misterioso e a tratti inquietante di una reale notte stellata, osservata ma ricreata da Vincent, nella sua notte stellata.

Perché mi sono soffermata sui due colori, il giallo e il blu e sulla sua particolare pennellata per fare una diagnosi sulla sua probabile malattia?

Ora, finalmente, vi svelo “l’enigma psichiatrico” che si nasconde dietro l’incessante uso dei due colori che sono oltretutto dei colori primari: il giallo e il blu.

Vincent Van Gogh era probabilmente affetto da una sindrome ormai individuata come bipolarismo, una malattia che si caratterizza di alternanze umorali, tra stati di malessere e depressione e momenti di euforia ed ottimismo.

Il bipolarismo, infatti, si caratterizza di due fasi: la fase depressiva e la fase maniacale.

La fase depressiva porta ad un umore molto basso, una sensazione che nulla sia più in grado di dare piacere, conducendo ad una generale sensazione di tristezza. A volte, sempre durante le fasi depressive, le persone affette dal disturbo bipolare pensano ricorrentemente al suicidio.

La fase maniacale, invece, è descritta come vissuto umorale alquanto elevato, con sensazione di onnipotenza ed eccessivo ottimismo. Il comportamento può essere iperattivo, caotico, fino al punto di rendere chi lo vive, inconcludente.

Infatti, la tavolozza dei colori prevalentemente usati da Vincent, ci rivela proprio questa condizione di malessere che prende il nome di bipolarismo, con le sue drammatiche alternanze umorali: il giallo, colore caldo per antonomasia, è sinonimo di vitalità, di energia, di ottimismo ma se è eccessivamente carico, come Kandinskij ci insegna nel suo testo capitale lo “Spirituale nell’arte, conduce alla follia; il blu, colore freddo, è sinonimo, soprattutto, quando tende a scurirsi, di incupimento interiore, di avvilimento e depressione.

Indipendentemente dalla patologia di cui soffriva, Vincent ancora nel 2023 dialoga con l’uomo moderno, offrendogli una partecipazione emotiva alla vita anche se dilaniata e tormentata ma che in verità, lo riflette e lo affascina ancora, stimolandolo ad ammirare e contemplare le sue opere…

Allora, andiamo direttamente in mostra a vedere i suoi capolavori “in carne ed ossa”, come si suol dire…

E nella prossima puntata, sveleremo i misteri di un “Vincent lucidamente colto” a confronto con il mondo fluttuante, le stampe giapponesi…

 

Angela Golia

Docente, storica dell’arte e grafologa. Fondatrice dell’associazione culturale il Cavaliere Azzurro di Milano che ha l’intento di divulgare la conoscenza del patrimonio artistico tramite conferenze, visite guidate, gite ed eventi anche culinari d’epoca.

 

 

 

 

 

 

 

Redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.