Il nome di quella Hall, Crocus
Editoriale di Daniela Piesco co-direttore Radici
Il nome di quella Hall, Crocus. Un piccolo fiore che sa di fine dell’inverno, mentre l’abbigliamento dei civili in coda per donare il sangue e dei poliziotti sulla scena del crimine mostra che primavera non è.Se ci piace pensare che Putin si è fatto l’attentato da solo, se ci piace pensare che c’è lo zampino di Zelensky, che la Cia avverte del pericolo perché ha le mani in pasta, che i servizi russi instradano i colpevoli verso la frontiera ucraina, ecco tutto questo furore tifoso non mi sembra aver a che fare con la volontà di capire. Di trovare conferme, di apparire come quelli che non ci cascano.La cosa peggiore dell’attentato di Mosca dopo la morte di vittime innocenti,ha a che fare con una guerra che ormai ci attraversa, in un tempo dal quale, esattamente come il Covid, non usciremo migliori.È la mancanza di innocenza di noi che assistiamo ridotti a tifare per una pista o per l’altra, a dubitare di un interrogatorio o a sbandierarlo.
Certo è che le guerre non rendono peggiori solo quelli che le combattono, ma anche quelli che vi assistono.
Come accade spesso quando si verifica un evento devastante come l’attentato terroristico del 22 marzo a Mosca, il cui ultimo bilancio è di almeno 140 morti, abbiamo i fatti, le zone d’ombra e manipolazioni di ogni genere.
Partiamo dai fatti .
Gli esperti hanno dato credito alla rivendicazione e ricordano che l’Isis non ha l’abitudine di assumersi la responsabilità di azioni che non ha compiuto.
La Russia ha indirizzato tutti i suoi sforzi militari, industriali e umani verso la guerra contro l’Ucraina, al punto da trascurare la lotta contro il terrorismo. È una delle grandi debolezze degli stati moderni, incapaci di gestire più di una crisi alla volta. L’attentato al Crocus ne è l’ennesima dimostrazione.
Mosca ha una lunga storia di conflitti con il terrorismo jihadista, dalla guerra sovietica in Afghanistan a quella in Cecenia (durante il primo mandato di Putin) fino alle operazioni in Siria e in Sahel
Il 23 marzo il gruppo di Stato islamico ha diffuso nuovi video per dimostrare di aver organizzato l’attacco.
Qui finiscono i fatti e si entra nel campo delle zone d’ombra e delle manipolazioni.
Tutti gli indizi, insomma, puntano lontano dall’Ucraina,anche se pure questa volta “la pistola fumante”, la prova decisiva sui mandanti ultimi, non si troverà, se è vero che la matrice va ricercata nel mondo dei professionisti dell’assassinio politico.
Si discuterà e si indagherà per anni, fino a che i protagonisti scompariranno dalla scena, fisicamente e non, e la scena stessa sarà così cambiata da far cambiare di significato ogni pezzo del puzzle da comporre. Tutte le ipotesi formulate si mescoleranno tra loro e gli squarci di verità che emergeranno di volta in volta saranno quelli coerenti con l’agenda politica del momentoc on buona pace di Vladimir Putin, appena rieletto ma già alle prese con una sfida che non aveva previsto.