Parthenope, il film di Paolo Sorrentino, un capolavoro

Parthenope, il film di Paolo Sorrentino, un capolavoro
di Carlo Di Stanislao
 
Il guardare una cosa è ben diverso dal vederla. Non si vede una cosa finché non se ne vede la bellezza. 

Oscar Wilde

 
Per fortuna che c’è Sorrentino ad animare le acque stagnanti del cinema di adesso, che si dibatte comatoso fra bioptic e remake senza nerbo e decisamente risaputi e noiosi.
In questo suo ultimo film l’autore napoletano firma un altro grande racconto antinarrativo che procede per suggestioni e momenti di abbagliante poesia. E si affida alla grazia della ‘absolute beginner’ Celeste Dalla Porta e al solito grandissimo Gary OldmanParthenope “Bella e indimenticabile” come una città dove è “impossibile essere felici”. Come un film dove puoi sentire l’odore del mare ma anche quello degli amori morti, attraversare gli anni, tra una fuga e un ritorno, senza tradire te stesso, toccare con mano le meraviglie e gli orrori e lasciarti abbracciare, cingere, accarezzare, da loro.
È un bellissimo film sulla bellezza, Parthenope. E sul desiderio, sul dolore. E sul mistero. Quello che, inevitabilmente, siamo. E quello che ci portiamo dentro e nemmeno noi sappiamo decifrare. Un grande racconto antinarrativo che parte dal 1950 e arriva fino ai giorni nostri lasciando però la Storia sullo sfondo, in attesa, e procede invece per suggestioni, per idee, per momenti di straziante, abbagliante poesia,insomma per immagini come il cinema dovrebbe fare.
Celeste Della Porta ha un viso d’angelo e un corpo da top model. Nel greve e imperdonabile gergo maschile, la si definirebbe una “gnocca”, l’occhio della cinepresa la esplora ed esalta al limite della molestia, come sicuramente obietteranno le femministe più severe. Parthenope è un manifesto estetico estremo, senza compromessi con le convenzioni che secondo gli standard dovrebbero cavalcare il gusto corrente del pubblico. È il lusso che può permettersi un autore che vanta uno status internazionale più fulgido di qualsiasi nostro regista vivente. È Napoli con la sua filiale esclusiva, Capri. Ma non come la Roma de La grande bellezza: in forma di sterminata metafora, quasi l’avatar fantasy dell’autobiografico” È stata la mano di Dio”. 
Se in finale compare una Parthenope invecchiata e “risolta”, l’intero film è proustianamente all’ombra delle fanciulle in fiore. E i personaggi, gli eventi che incontra, che scandiscono il ritratto contraddittorio di una città con la sua miseria e nobiltà, sono come le figurine del presepe napoletano: non quelle ordinarie bensì gli “ospiti” extra, che variano di anno in anno secondo l’attualità. C’è la statuina del Grande Scrittore in sbronza perpetua, Gary Oldman che impersona John Cheever, autore-culto della ragazza sirena. C’è il mitico Comandante Lauro, quello che ti passava la scarpa numero due se votavi bene. C’è il Boss camorrista che porta la Bella all’umiliante spettacolo del coito pubblico tra i rampolli di due “famiglie” in fusione. C’è il Vescovo Beppe Lanzetta che masturba Parhenope nuda sotto gli ori di San Gennaro: “Né provocatorio né trasgressivo”, secondo il regista. Isabella Ferrari insegna recitazione, ma un velo fitto nasconde gli sfregi da lifting.
Parthenope cresce divisa tra due amori inscindibili, Sandrino (Dario Alta) e Raimondo (Daniele Rienzo), suo fratello. Ma c’è un tabù insuperabile tra Raimondo e il suo oggetto del desiderio: finirà suicida. La statuina più irresistibile è Luisa Ranieri, addobbata come Sofia Loren, con i boccoli (finti) di Sofia Loren e gli occhiali di Sofia Loren. “Non è la Loren”, assicura Sorrentino. Che le mette in bocca un’invettiva fuori copione: “Il problema siete voi napoletani. Siete depressi e non lo sapete. Siete poveri, vigliacchi, piagnucoloni, arretrati, e sempre pronti a dare la colpa a qualcun altro. Io me ne torno al Nord: Io mi sono salvata, ma voi no: siete morti”.
Ma Parthenope non è solo un magnifico involucro, studia antropologia con profitto. E sceglierà nella vita l’insegnamento, circondata dal solo affetto dei propri studenti. Il suo prof. di gioventù, Silvio Orlando, incarna il perno forte, disincantato, della cultura e del pensiero napoletano. Le spiega che l’antropologia, nella sua essenza, è “vedere”, e che vedere è difficilissimo, “perché è l’ultima cosa che si impara”. Solo quando è certo che la sua allieva abbia imparato a “vedere”, la introduce presso il suo amatissimo figlio, un freak gigante, mostruoso e gentile “fatto di acqua e di sale, come il mare”. E lei dice: “È bellissimo”.
Ed io all’uscita ho mormorato a me stesso: “il cinema è davvero bellissimo perché non solo ti mostra, ma ti fa vedere”.

Redazione

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